«La chiesa è un ospedale da campo» diceva Francesco nel 2013, a pochi mesi dall’elezione. Quando, cioè, descriveva la chiesa cattolica come una tenda aperta a tutti, non un club riservato a pochi. Ai cattolici col complesso dei primi della classe, quella metafora ricordava che la chiesa non si formalizza sullo stato di salute, ma agisce per fermare emorragie, dare sollievo in quel campo di battaglia che è il mondo. È stato, perciò, triste sentire da quella stessa bocca, undici anni dopo, l’invito a respingere i candidati omosessuali dai seminari perché «c’è troppa aria di fr*ciaggine nella chiesa». Il succo delle dichiarazioni divulgate dal sito Dagospia e poi rilanciate pochi giorni fa da tutti i giornali italiani sta tutto qui, in una frase volgare e sgrammaticata, che ha ferito la sensibilità di chi, in questa chiesa, sta come un ospite scomodo e chi, dentro di essa, combatte la sua lotta silenziosa. «Il Papa non ha mai inteso offendere o esprimersi in termini omofobi, e rivolge le sue scuse a coloro che si sono sentiti offesi per l’uso di un termine, riferito da altri» ha dichiarato il portavoce della sala stampa vaticana in una nota. Come se le scuse bastassero a cancellare l’insulto, che è poi come versare acqua sulla terra già bruciata.
Ma il caso non riguarda solo le dichiarazioni volgari e omofobe di chi diceva «Chi sono io per giudicare un gay che cerca il Signore?». L’episodio dice ben altro. Prima di tutto, è avvenuto in un incontro a porte chiuse. Il 20 maggio scorso, nell’aula vecchia del sinodo, Francesco ha infatti incontrato 270 vescovi italiani nella consueta assemblea di primavera della Cei. Un meeting riservato, della durata di due ore, dove l’episcopato italiano della Cei ha potuto confrontarsi col papa sui documenti del cammino sinodale in corso. La chiesa universale sta cambiando e, in vista del prossimo ottobre, anche quella italiana ha qualcosa di nuovo da dire. Soprattutto perché in questi anni si sono fatte sentire realtà nuove, come le tante associazioni di credenti Lgbtqia+, espressione di una chiesa viva e fuori dalle righe, mica ingessata nei pizzi e merletti della nomenklatura vaticana! E fra le tante questioni ancora aperte nella chiesa italiana, si è parlato anche dell’ingresso dei credenti omosessuali in seminario.
Qualche mese fa, infatti, la Conferenza episcopale italiana ha approvato la prima bozza di un documento sull’accesso ai seminari in Italia, che è tuttora al vaglio del Dicastero vaticano per il Clero. Si tratta di un documento che va a incastrarsi nella Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, il regolamento globale su sacerdozio e seminari varato il prossimo ottobre. Fino all’approvazione, quindi, i giochi sono aperti. Nell’incontro del 20 maggio, il papa ha risposto alle domande rivoltegli da alcuni vescovi proprio su questo tema. Francesco non si è limitato a dare loro una risposta breve e già nota almeno dal 2018 – il suo no all’ammissione di seminaristi omosessuali -, ma le sue esternazioni omofobe sono state registrate e divulgate fuori da quell’incontro a porte chiuse. «Un termine, riferito da altri» ha specificato il papa, ed è questo un punto importante della faccenda. Non c’è bisogno di ricostruire retroscena per capire che, se delle dichiarazioni così violente vengono passate alla stampa tempo dopo che il papa le ha pronunciate, dietro c’è stata un’intenzione molto chiara.
La posizione del papa sull’accesso ai seminari era già nota dal 2016, quando cioè fu approvato il documento della Congregazione per il clero che di fatto chiude le porte di seminari e ordini religiosi a «coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay». È lecito contestare questa posizione retrograda, e nella Conferenza episcopale italiana c’è chi lo sta facendo. Con una maggioranza risicata, di recente la Cei ha approvato un emendamento che si limita a distinguere fra atti e sentenze, e ribadisce l’obbligo di celibato per tutti i seminaristi, a prescindere dal loro orientamento sessuale. Ma quando si tratta di prendere la parola, chi lo fa davvero? Basti vedere l’imbarazzante accoglienza di alcune diocesi verso le veglie di preghiera per contrastare l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Perché se è vero che, in questi anni, alcuni vescovi hanno fatto la loro parte di accoglienza, è altrettanto vero che di default saranno contestati o passati al vaglio delle chat private, altro che incontri a porte chiuse.
Era il 2022 quando, con una lettera straziante, cinquanta sacerdoti e religiosi hanno fatto coming out davanti ai loro vescovi con una lettera di denuncia:
«La Chiesa non è un contesto dove trovare immediatamente accoglienza, soprattutto per noi […]. Spesso si è costretti a rinnegare se stessi in nome di una spiritualità ipocrita, dagli effetti devastanti. Abbiamo ascoltato storie di consacrati lacerati dai sensi di colpa fino a lasciare la vita presbiterale e, in alcuni casi, togliersi la vita: tentazione terribile, anche per qualcuno di noi».
Parole pesanti come pietre, che però presentavano la cruda realtà dei fatti. Perché la realtà è superiore all’idea, e qualcosa sta cambiando. Il medico psichiatra Raffaele Iavazzo ne ha parlato sulla rivista Il Regno:
«Un tempo al medico psicologo clinico si chiedeva di fare una diagnosi per certi disagi in cui l’omosessualità emergeva lentamente. Oggi nel mio studio arrivano molti sacerdoti omosessuali e la loro narrazione si fa sempre più trasparente e consapevole; usano un linguaggio diretto, come chi ha preso in mano il timone della propria barca e la guida con apparente sicurezza in acque che invece, almeno in teoria, vengono agitate da molte dichiarazioni di principio».
La gaffe del papa mette, quindi, in luce la lacerazione fra i vescovi italiani sulla questione. La richiesta di ammorbidimento nei criteri di ammissione troppo rigidi nei seminari è venuta da una parte di loro, ma non da tutti: cosa significano termini pseudo-scientifici, come tendenze disordinate o più o meno radicate? Perché la chiesa si ostina a voler misurare il tasso di omosessualità e farne il termometro del benessere psico-fisico di una persona? Basti vedere alle centinaia di denunce di abusi su minori per comprendere che i problemi che la gerarchia deve affrontare vanno ben oltre la natura di una persona. Nel libro La casta dei casti (Bompiani, 2021), il sociologo Marco Marzano lo ha spiegato bene: la doppia morale è al centro della cultura celibataria di molti preti. Allora, in quelle bolle che sono i seminari, riproporre una semplicistica visione del mondo divisa in due, dove gli omosessuali sono parte del disordine, serve a giustificarsi come vestali dell’ordine, non importa se la purezza sia solo facciata. L’omofobia di tanti vescovi non è sbandierata pubblicamente, ma in privato è nota. Ricordate l’opposizione di tanti di loro al disegno di legge sul contrasto alla discriminazione e violenza per motivi legati anche all’orientamento sessuale, noto come ddl Zan? Diversi di loro hanno dichiarato la loro contrarietà non a un disegno di legge, ma a un presunta fluidità diffusa, che toglierebbe ai ragazzi riferimenti educativi. Alcuni vescovi si sono spinti oltre, definendo quella contro l’omofobia una legge per «distruggere la famiglia».
Sarebbe molto interessante se venissero riportate le dichiarazioni a porte chiuse di molti di loro, gli stralci di chat di chi, nel chiuso dei seminari e della crittografia dei messaggi, parla di ideologia omosessualista e gender. Che in pubblico scrivono lettere di vicinanza alle persone emarginate, salvo poi essere rigidi a casa loro. Dopo le parole violente del papa, nessuno di loro ha rilasciato una dichiarazione. Salvo quei vescovi che hanno cercato di addolcire le sue parole amare, addirittura giustificandole. Ma le espressioni colorite del pontefice rappresentano il cavallo di Troia perfetto per frenare le riforme dentro la chiesa italiana. La stessa che guarda con sconcerto iniziative di reale apertura: cito il vescovo di Rimini, Nicolò Anselmi, che lo scorso aprile ha attivamente preso parte alla Giornata della visibilità transgender di Rimini ed è stato messo alla gogna. Come lui, ci sono tanti altri che, dal canto loro, partecipano alle veglie di preghiera nelle Giornate contro l’omofobia, che aiutano le persone transgender, messe ai margini di una società che dovrebbe tutelarle, ma le considera figliə di un dio minore.
Costoro rappresentano una piccola parte di un gruppo composito che non riesce a trovare unità. Perché in molti seminari si parla ancora di Homosexualitatis problema per citare il documento dell’allora prefetto Ratzinger (1986). Le parole del papa ne sono l’ennesima conferma. Ma è altrettanto deprecabile chi, all’interno della stessa chiesa, resta in silenzio, calcolando se sia conveniente parlare ed esporsi, come fanno quei pochi coraggiosi. In fondo le parole del papa sono gravissime, un colpo di bisturi su una persona ferita dall’ennesima discriminazione. Eppure, in questo grande ospedale da campo che è la chiesa, colpevoli sono anche quelli che restano a guardare i corpi dissanguarsi.
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DA ATEO E ANTICLERICALE, AVEVO CMQ APPREZZATO ALCUNE POSIZIONI DI QUESTO PAPA. EVIDENTEMENTE SBAGLIAVO A PENSARE, COME SI SUOL DIRE, CHE (COME NELLA FIABA DELLA RANA E LO SCORPIONE), NON E' POSSIBILE CAMBIARE LA NATURA DELLE COSE. PURTROPPO E' UN PROBLEMA DI TUTTE LE RELIGIONI. D'ALTRONDE, COME SI SUOL DIRE, LA RELIGIONE E' L'OPPIO DEI POPOLI E, SECONDO ME, E' STATA LA ROVINA DELL'UMANITA'.