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Tutto ciò che accade è umano: intervista a Donatella Di Pietrantonio

Nel suo ultimo romanzo, L’età fragile, la scrittrice abruzzese racconta le ferite di tutti gli umani, quelle personali e quelle collettive. L’abbiamo intervistata.

Tutto ciò che accade è umano: intervista a Donatella Di Pietrantonio - Sessp 15 - Gay.it
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Nel suo ultimo romanzo, L’età fragile, Donatella Di Pietrantonio racconta le ferite di tutti gli umani, quelle personali e quelle collettive. Con la sua lingua, sempre esatta e sublime, la scrittrice (vincitrice del Premio Campiello e di un David di Donatello) racconta cosa succede alle relazioni minime di fronte ai precipizi collettivi, e come si insinua il male nelle nostre piccole vite.

L’Abruzzo e il patriarcato, la vita rurale e il futuro, Milano e la campagna, le madri, le figlie e i padri, le rivendicazioni di genere e la fuga, le partenze e i ritorni: di seguito, la nostra intervista.

Dagli esordi a L’età fragile, il tema del materno è centrale nei tuoi romanzi. Cosa, di quel territorio sdrucciolevole che è il rapporto madre-figlia, ti chiama a sé?

La mia storia di figlia, la relazione con mia madre. L’ho persa quest’estate e ci sono ancora cose che non conosco di lei.

Che madre era?

Ho sofferto una deprivazione del materno. Era una madre indaffarata, non aveva tempo per me. Io non ero la sua priorità, eppure ho sempre vissuto credendo che il mio racconto non fosse totalmente vero. Come avessi operato una sorta di falsificazione nel percepire questa relazione tra me e mia madre. Avevo sempre il dubbio di esagerare, di essere iper-sensibile. Forse è stato un tentativo estremo di difenderla. Proprio durante il giorno di Natale, quest’anno, mio padre mi ha raccontato della mia infanzia, della nostra vita contadina. Mi ha detto che mi portavano nei campi, mi lasciavano sotto l’ombra di un albero o in un solco. Intanto lavoravano. Mi ha detto che piangevo, che mia madre mi lasciava piangere. Doveva lavorare. 

Com’è stato scoprirlo?

Impressionante, è caduta anche l’ultima difesa. Mia madre non aveva colpe, era inserita in un sistema patriarcale terribile, primitivo. Le donne di quella generazione passavano dalla soggezione al padre alla soggezione al suocero. La me bambina non poteva fare altro che incolpare lei, però. Non avevo gli strumenti per fare analisi sociologiche sulla società contadina e sul patriarcato. Volevo solo mia madre. Mi sono barcamenata tutta la vita tra questa attribuzione di colpa e una difesa disperata. Volevo salvarla, anche. 

Quante cose chiediamo alle madri, ancora oggi. 

Oggi c’è più consapevolezza, il femminismo sta lavorando molto nella direzione della de-colpevolizzazione. Però, sì, alle madri si chiede ancora tanto, troppo. Siamo ancora circondate da richieste di onnipotenza, c’è ancora un carico enorme. Pensiamo che le madri debbano ancora sapere tutto, se un figlio è in difficoltà, se è in un momento di fragilità o di disagio. Ci aspettiamo dalle madri che abbiano un intuito onnipotente, quasi magico. 

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Ne scrivi anche nel romanzo.

Lucia, la protagonista, è una madre piena di insicurezze. Si sente in colpa e non capisce perché la figlia, Amanda, non le parli. Con i figli adulti è più difficile, viene meno lo stato simbiotico e fusionale dei primi momenti. All’inizio il figlio è una periferia del tuo corpo, poi questa cosa viene meno. Non è detto che con i figli adulti si riesca a comprendere. Se non si riesce a comprendere, non si riesce ad aiutare. Lucia si percepisce inadeguata. Questa inadeguatezza è figlia di una società che dalle madri pretende la perfezione. 

E a fronte di questa inadeguatezza, tutti i protagonisti de L’età fragile si chiudono nel proprio silenzio inespugnabile. Cosa cerchiamo nel silenzio?

 La possibilità di non esporci. Per Lucia, da giovane, il silenzio è stato sinonimo di sicurezza. Sarebbe stato pericoloso con quel tipo di padre, se lei avesse detto tutto ciò che faceva o che voleva. Il tentativo di conquistarsi le libertà minime, in un mondo così patriarcale, passava anche dal silenzio. Era necessario.

Il silenzio del padre, invece, è tutto maschile. 

Quel silenzio è un dato culturale. I padri di quella generazione erano educati, anzi male educati, a non mostrare le emozioni e la fragilità. Non era virile che un uomo parlasse di sentimenti. Conosco bene quel tipo di maschile, che doveva mettere uno schermo tra sé e l’altro. Tutta l’emotività doveva essere ingoiata, salvo poi erompere a volte in maniera incontrollata e violenta. 

E il silenzio di Amanda, la figlia?

Lucia non riesce a decifrare il silenzio di Amanda, sembra non abbia motivo. Lucia è una madre aperta, contemporanea eppure non c’è fiducia. Forse crede la madre non sia in grado di aiutarla, forse è una questione generazionale oppure, invece, la madre è parte di un tutto verso cui Amanda si è chiusa. 

È anche collettivo, il tacere. Di fronte al fatto di cronaca da cui prende le mosse il romanzo, tutta la collettività decide di zittirsi. 

È il silenzio di un’intera comunità che non ha elaborato un episodio efferato di violenza, che diventa un autentico rimosso collettivo. Lucia, verso questo evento, ha un senso di colpa. Quello che è successo alle sue amiche, poteva succedere a lei. È il senso di colpa delle sopravvissute: questo sentirsi colpevoli perché si sta bene, mentre qualcun altro sta male. Mi ci stai facendo pensare tu: il silenzio è il vero protagonista del romanzo. 

All’inizio del romanzo si fa un accenno alla pandemia: Amanda lascia Milano e torna al paese, dalla madre. Nessuno, però, ne parla più di quello che è successo a livello globale. Eccolo ancora qui, il rimosso collettivo.

Il non detto genera conseguenze che fatichiamo a leggere, a cui non riusciamo a dare un senso. Della pandemia non ne parliamo più, ma nelle nostre vite ci sono segni perturbanti che non riusciamo davvero a ricondurre alle origini. È come se vivessimo soltanto nel presente, come se avessimo bisogno di rimuovere anche il passato più prossimo.

L’età fragile è, ancora una volta, un romanzo di arminute: di persone che partono, poi tornano. Come Amanda, come Doralice. Da cosa scappiamo? A cosa torniamo?

Io credo molto all’influenza della geografia nella vita delle persone. Ci sono geografie svantaggiate, luoghi deprivati, come quello dove abito. Se vivi in un posto così, prima o poi ci pensi ad andartene. Se te ne vai, magari nel tuo altrove poi ti chiedi se vale la pena tornare. Manca tanto, in questi posti. Anche se ci si guadagna in qualità di vita, in termini di relazioni più umane. Tutti i miei personaggi hanno un rapporto con l’altrove: Amanda se ne vuole andare, perché è giovane. È insostenibile, per lei, vivere in provincia. Pensa che solo in città, solo a Milano, potrà vivere davvero.

È un pensiero diffuso, immagino.

Io ho il mio piccolo osservatorio: ho un altro lavoro, faccio anche la dentista. Mi capita di parlare spesso con ragazzi che frequentano l’ultimo anno di superiori. Quando chiedo loro cosa vogliono fare, mi rispondono tutti con il dove e non con il cosa. Mi dicono: «voglio andare a Roma, voglio andare a Milano». Non sanno cosa vogliono fare, sanno che vogliono andare via. La città è ancora il posto dove si pensa di poter trovare tutto. Anche se alla fine non so se siamo preparati alla vita in città.

Succede anche ad Amanda.

Lei subisce un piccolo episodio di aggressione che la sconvolge. È una delle cause della sua chiusura. Anche una violenza di questo tipo ti cambia. Ti cambia nel relazionarti con gli altri e con te stesso. A me è successo. 

Cosa è successo?

Sono stata rapinata e mi è rimasto addosso, ancora oggi a distanza di anni, un qualcosa di fisico. Ancora trasalisco, a volte, se qualcuno si avvicina. Chi abita in provincia non ha le difese per vivere nelle città, che tanto carichiamo di aspettative. Nel romanzo c’è un continuo rimando tra quello che capita ad Amanda e quello che è capitato a Doralice e Lucia nella loro giovinezza. Anzi, è proprio l’aggressione ad Amanda che serve a Lucia a ripescare nel rimosso collettivo che aveva messo da parte. 

Un romanzo di riflessi e rispecchiamenti: c’è una comunanza femminile in questo vissuto violento?

Anche quello che è successo ad Amanda – una micro-aggressione con scippo – è comunque una violenza di genere. Certo, non a sfondo sessuale, non con quel tipo di scopo. Io sono stata aggredita, e così Amanda, perché ero un bersaglio facile. Una donna di un metro e sessanta, magrolina, sola, in un parcheggio assolato di Pescara. Probabilmente, se avessi avuto la fisicità di un uomo alto e muscoloso non sarei stata scelta come vittima. Il genere c’entra sempre. Nel romanzo alla storia di Amanda, se ne affianca una più forte, che porta alla morte, che è ispirata a un vecchio episodio di cronaca avvenuto qui in Abruzzo. Nell’omicidio di Tania e Virginia c’è un’evidente violenza di genere, anche particolare dal punto di vista di chi la agisce. Abbiamo un catalogo troppo vario di violenze di genere: le possibilità sono infinite. A distanza di tanti anni, mi sono ricordata di questo episodio di cronaca, che all’epoca avevo rimosso. L’ho ricordato ora proprio per la particolarità delle condizioni.

Tre ragazze vanno a fare una passeggiata in montagna. Due di loro vengono aggredite. Una, Doralice, riesce a scappare.

Mi ossessiona il tema dell’inaspettato. Mi stupiscono tutti quei momenti in cui ci sembra di vivere sicuri, senza alcun timore, e poi invece si incrociano traiettorie casuali, imprevedibili. Tre ragazze fanno un’escursione in montagna e incrociano la traiettoria di un uomo, che vive in totale isolamento, in una simbiosi costante con la natura e gli animali che deve accudire. Ancora continuo a interrogarmi intorno all’improbabilità di certi incontri che avvengono e producono conseguenze così nefaste. Non riesco ad accettarlo.

Foto di Stefano Schirato

Le donne di questo romanzo vogliono ribellarsi. Amanda viene descritta come una ragazza che ha la rivolta nella voce e, infatti, alla fine si ribella ai genitori. Allo stesso modo, Lucia, nella sua giovinezza, vuole emanciparsi, non vuole essere una di quelle donne relegate alla sfera domestica.

Io somiglio molto a Lucia, mio padre somiglia molto al padre di Lucia. Io e lei abbiamo dovuto combattere tantissimo per le libertà minime. Partivamo veramente da un punto zero, le aspettative e il mandato famigliare nei confronti delle figlie femmine erano inesistenti. In questi ambienti rurali ci si aspettava solo che una femmina si sposasse, possibilmente con un vicino di casa, per avere un numero di capi di bestiame sufficiente a garantire la sussistenza. Il destino che veniva immaginato per noi era limitato. È stata una ribellione continua a un paterno che poteva anche diventare molto violento. La nostra rivolta aveva tante forme. In parte anche esplicite: a volte Lucia non gliele manda a dire al padre, gli risponde. Ma lui la rimprovera e dice: «Stanotte ti ammazzo qui davanti alla caserma». Non lo avrebbe mai fatto, ma quella era la temperatura. In parte, invece, ci si ribellava con le bugie. Facevamo una cose, ma ne dicevamo un’altra. Avevamo la nostra vita sociale, in parte segreta. C’era complessità, in questa ribellione. Non ci si ribellava quasi mai a padri brutali, spesso questi padri erano poi anche amorevoli e attenti, nonostante il mutismo affettivo. Questo significa che la lotta è ancora più complicata. Si ha a che fare con un paterno ambivalente e anche tu, figlia, sei ambivalente nei suoi confronti: ami e odi. È stata dura, non ho finito di lottare con mio padre. 

Qual è la differenza con le lotte anti-patriarcali di oggi?

Io non mi sento adeguata a tutte le conquiste che le donne hanno fatto in questi anni relativamente al linguaggio. Mi sento indietro. In parte mi giustifico dicendo che la mia generazione ha dovuto conquistare quello che ha metro per metro, partendo da un punto zero che ci voleva mogli del vicino di casa con la stalla piena di vacche. Abbiamo dovuto arrampicarci partendo dal fondo del fosso. Dall’altra parte, invece, sento di essere imbevuta di resistenza e di non risolto dentro di me rispetto al rapporto con quel patriarcato di origine. A volte, ti confesso, ho paura di svelare questa mia inadeguatezza di linguaggio. Parliamo tanto di linguaggio, che però è un’espressione di un pensiero retrostante. Il problema vero però è lì, in quel sistema di pensiero.

In una recente intervista Barbara Alberti ha detto che le sacrosante battaglie linguistiche di oggi si sono incistite e sono diventate lotte solo di significante e non più di significato.

A volte forse c’è troppa intransigenza sugli errori di linguaggio, io penso che ci sia ancora molto lavoro da fare a monte. Il linguaggio è rivelatore, è la cartina al tornasole. Il lavoro è da fare soprattutto nelle retrovie. È come dare troppa importanza all’effetto senza guardare le cause. 

Il tuo romanzo fa una cosa che dovrebbe fare tutta la letteratura: sospende ogni giudizio umano. Come possiamo coniugare questa necessaria sospensione del giudizio all’urgenza di un risveglio consapevole, di una presa di posizione?

Con uno sforzo enorme di empatia. Penso di avere tra le mie poche doti un’empatia a trecentosessanta gradi. È quasi un interesse morboso che è tipico degli scrittori. Ho lavorato di recente sull’opera di Carrère, sul suo desiderio di entrare nella testa dei terroristi del Bataclan o nella mente di Jean-Claude Romand, che ha sterminato la sua famiglia. Bisogna provare a entrare nella testa di chi è radicalmente diverso da noi, cercando quell’equilibro miracoloso tra la presa di posizione e la sospensione del giudizio, o perlomeno della condanna. Nello scrivere il personaggio dell’assassino io sono stata aiutata molto dal dialogo con la PM che anni fa si è occupata del caso di cronaca reale.

Come ti ha aiutata?

Abbiamo parlato molto, di persona e al telefono. Soprattutto dell’omicida, vale a dire di questo ragazzo che viveva in isolamento, in simbiosi con le pecore, con gli animali da cui traeva anche godimento sessuale. Un giorno, lui ha visto le tre ragazze camminare sulle montagne, in calzoncini. Voleva accoppiarsi con loro, almeno con una di loro. Ne ha uccise due. Ho chiesto alla magistrata se lui avesse perso il senso dell’umano, se avesse superato il confine dell’umano. Lei mi ha detto che tutto ciò che accade è umano. Lei ha fatto di tutto per farlo condannare all’ergastolo, lui ha ottenuto il massimo della pena che un tribunale può conferire a un assassino. Dentro di sé, però, lei ha mantenuto una presa di posizione che non va oltre il giudizio legale. Non c’è la condanna umana. 

Amanda, Lucia, suo padre: tre età diverse, tre generazioni legate dallo stesso terreno. Nel romanzo, la terra è un corpo vivo, falcidiato e fragile. È il motore degli eventi. Cos’è il terreno per te?

È un’unità di luogo di cui avevo bisogno, avendo a che fare con personaggi che rivendicano la propria unicità. Il terreno tiene insieme queste fragilità. È ciò che permette alla linea del tempo intergenerazionale di non disgregarsi, di non esplodere. Se non ci fosse il terreno, i miei personaggi sarebbero schegge. Invece sono costretti a chiedersi cosa fare di questo terreno. Compresa Amanda, che inaspettatamente prende una posizione, si assume una responsabilità. Il terreno è lì per dirci che dobbiamo prenderci delle responsabilità, che dobbiamo prenderci cura dei luoghi. Possiamo avere tutti i nostri deragliamenti mentali, ma siamo chiamati a prenderci cura delle cose, dei luoghi. 

Su quella terra, ognuno è fragile a suo modo. Ogni età è fragile e faticosa. Non c’è tregua?

Ognuno ha la sua fragilità che è collegata a una determinata fase di vita. Hai ragione quando dici che tutti facciamo fatica. Io ho quasi sessantadue anni e il vissuto che sento è proprio questo: quando ero più giovane mi sentivo fragile, oggi mi sento affaticata. Questa fatica che non è che un’altra modalità della fragilità.

Cito Paolo Nori che nel suo podcast dice: «Stiamo al mondo, facciamo fatica».

Ha perfettamente ragione. Forse questa è una maledizione di chi scrive e di chi si interroga su sé stesso. Io non me la sono mai goduta, ho sempre pensato a posteriori che avrei potuto gioire di più. Sul momento, mai. La giovinezza è stata un attimo di grande fragilità. È la condizione umana: se hai un certo tipo di sensibilità, ti tormenti sempre, ti rendi sempre fragile. Fa soffrire, ma fa anche penetrare in profondità, nella tua condizione di essere che attraversa il mondo per un periodo limitato. Ho avuto una crisi bruttissima a dodici anni, quando ho scoperto che siamo tutti mortali. Tutto è riconducibile a quello, siamo esseri mortali. 

 

 

 

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