CARO DIARIO…

Le pagine del diario di un ventenne omosessuale nel 1960.

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Oggi probabilmente nessun giovanissimo custodisce i suoi ricordi in un diario. Qualche anno fa, al contrario, era di uso comune confidarsi ad un diario segreto per condividere le gioie e le sofferenze della propria esistenza. In molti casi, trascorso qualche tempo, le pagine ingiallite di quegli scritti diventano una fonte inesauribile di dati storici. Inoltre, leggere un diario è come abbracciare un’anima, che si dispiega e si interroga su se stessa ricercando, nelle sue sfaccettature e nelle sue contraddizioni, conforto e comprensione. Il Diaro di Anna Frank è un esempio che palesa tutto questo.

Mi sono chiesto spesso cosa potessero contenere i diari dei gay italiani del passato. E’ difficile ipotizzare se generalmente, quelle pagine discutano più di sesso, di amore o di gioia di vivere, ma probabilmente, non andrei molto lontano dal vero nell’affermare che era la sofferenza (quella comune a tutti i gay) che occupava quelle pagine.

Immaginatevi lo stupore che ho provato quando un anziano mi ha consegnato il suo diario segreto, scritto nel 1960 a vent’anni. Finalmente avevo tra le mani una prova di esistenza che attraverso una grafia lieve, fitta e tondeggiante mi racconta sofferenze e gioie passate ma di attualità impressionante, mescolate a fatti quotidiani raccontati con gusto e qualche ambizione letteraria.

Non esistono, che io sappia, testimonianze simili a questa perché diari e lettere di omosessuali vengono distrutti dall’omosessuale stesso o dai parenti alla morte dell’autore: “il terribile segreto non deve venire alla luce”.

L. P., così si chiama l’anziano che ci ha regalato i suoi ricordi, mi ha permesso di pubblicare una giornata del suo diario, con diffidenza ma convinto che la memoria costruisca identità e che le sofferenze comuni siano motivo di crescita.

9 Novembre 1960 – Oggi abbiamo ripreso le scuole, interrotte per le vacanze dei Morti. A pranzo siamo passati inavvertitamente a parlare dei ‘balletti verdi’ [vedi Babilonia, n. 183, dicembre 1999] ed ho saputo che su di un settimanale, Le Ore credo, sono stati pubblicati i nomi di coloro che sono implicati nello scandalo. Il mio compagno, ha una grossa verruca accanto al naso, sorrideva nel raccontarlo ed ha aggiunto, con un briciolo di piacere sadico, che uno di essi si è suicidato.

Ho sentito un tuffo al cuore ed ho subito pensato a Gianni, che esprimeva spesso la simpatia per il suicidio. Mi sono rammentato della sera in cui eravamo andati nei campi e ci eravamo sdraiati nell’erba alta, lungo il fossato. Non ci eravamo fermati a lungo perché le zanzare salivano dall’acqua sottostante e ci pungevano continuamente, ed un dato momento ci eravamo trovati su un nido di formiche inferocite che avevano cominciato a menar furiosi colpi di chele contro la schiena scoperta di Gianni. Ci eravamo rivestiti in fretta ed eravamo tornati a casa. Mia madre e mio fratello erano già a letto.

Con una bottiglia di latte eravamo andati sotto i pini; io mi ero seduto e Gianni aveva appoggiata la testa sulle mie cosce. Nel silenzio lo udii bere il latte a garganella dalla bottiglia. Si interruppe per chiedermi se ne volevo, poi ne bevve un’altra sorsata. Dissi che non mi piaceva il latte, ma mentivo. Inspiegabilmente, c’eravamo baciati a lungo prima, provavo un senso di disgusto al pensiero di bere il latte dalla bottiglia dove aveva appena bevuto lui.

Quasi per farmi perdonare, allungai la mano ad accarezzargli il viso. La sua voce mi colpì nel silenzio. “Non mi sono raso. Ho la barba lunga”. Ritrassi la mano e benché egli aggiunse subito: “Se vuoi, accarezzami pure” non ne ebbi il coraggio. E non perché avesse la barba lunga. Bevve ancora del latte.

Le lucciole vagavano basse, in lente evoluzioni, accendendo ritmicamente la loro luce gialla. Alcune erano per terra, seminascoste fra i fili dell’erba, non so se per risposare o per quale altra ragione.

“Guarda quante lucciole” dissi sottovoce. Doveva aver voltato il capo verso di me perché intesi più chiaro il suono della sua voce:

“Sei Felice?” Non attese risposta. “Non dirmi che lo sei. Non è vero… Nessuno è felice. Non in modo particolare…” Fui tentato a chinarmi e baciarlo. Nell’oscurità distinguevo appena i suoi occhi.

“Sempre obbligati a vederci di nascosto… E bisogna stare attenti a non tradirsi, che la gente non si accorga che siamo degli anormali. Dammi la mano”. Gliela porsi ed egli la strinse nella sua. Sentivo un senso di inquietudine ed il pulsare della sua carne contro la mia lo aumentava. “Ti voglio bene” sussurrò “stringimi più forte la mano”. Era la prima volta che lo diceva, dopo cinque mesi che ci incontravamo. Non seppi rispondergli. Poi la sua voce riprese, più sommessa. “Credo che fra qualche anno mi ucciderò”. Il sangue mi si fermò nelle vene e dovetti fare qualche movimento perché egli rise piano.

“Che? Ti sei spaventato? Non ho forse mille ragioni per uccidermi? Qualche volta quando ritorno a casa la sera in Lambretta, dopo essere stato con te, mi sento tentato a gettarmi contro le macchine che vengono in senso contrario. Non è un attimo. Ma per tutto il viaggio. Gli occhi vorrebbero chiudersi per non vedere la strada; la stessa volontà me lo suggerisce ma non so decidermi. Non so cosa mi trattenga. E aumento la velocità al massimo. Non l’ho mai detto a nessuno ma ho giurato di uccidermi il giorno che compirò i trent’anni”. […] Le lucciole sembravano essere aumentate; nel buio della notte brulicavano le loro luci gialle. Una passò su di noi e Gianni allungò la mano. “Guarda che colore strano”. Me la mostrò nel palmo della mano a pancia all’aria. Il piccolo ventre gettava sprazzi di luce verdastra.

“Noi siamo come le lucciole che mandano luce verde invece che gialla come tutte le altre. Ci estraniamo dalla massa degli uomini ed essi ci scherniscono, ci additano ironici, benché molte volte essi facciano ciò che facciamo noi, solo per provare una nuova sensazione, o per guadagnare o per ricattare. Auguro loro che abbiano un figlio come noi, invertito, additato da tutti come un mostro o un assassino. Non è colpa nostra se proviamo degli impulsi irresistibili; non di uccidere, no, ma di vivere accanto a un nostro simile, ad un uomo che amiamo disperatamente e per il quale siamo disposti a fare qualsiasi sacrificio. Non è così essere storpi, gobbi o pazzi. Dalla gente avresti la pietà, mentre per noi vi è solo disprezzo perché ci considerano dei viziosi, dei soggetti da galera”. […] Dicono che Dio perdona a tutti. In questo caso mi pare proprio di no, anzi, punisce chi di colpa non ne ha alcuna. Per questo non credo in Dio. Perché se egli esistesse e permettesse che alcuni uomini nascano invertiti, sarebbe ingiusto e cattivo”. Parlava piano, con voce triste velata di ironia.

Provavo una pena immensa per lui e avrei voluto in qualche modo consolarlo, cancellare con un colpo di spugna tutte le sue considerazioni così amare e vere e renderlo felice. Mi chinai sul suo viso; gli presi il capo fra le mani. “Ti amo, Gianni” sussurrai e baciandolo avrei voluto estrargli dall’anima ogni dolore e farlo mio. Non mi sarebbe importato soffrire più di quanto soffrivo, purché egli non avesse pensieri e potessi vederlo sempre allegro e felice. […]

Gli occhi di Gianni erano nel buio, immersi nelle occhiaie. Era molto bello e lo amavo tanto. Da quando l’avevo conosciuto gli ero rimasto fedele anche se sapevo che la domenica andava al lago con un altro giovanotto. Ne soffrivo ma non gli avevo mai detto nulla.

Riprese a parlare. “Oggi a casa ho litigato con mio padre. Aveva frugato nel mio cassetto ed ha trovato due fotografie di Glenn Bishop [Modello della rivista “Adonis” che negli anni sessanta pubblicava sportivi discinti] Si è messo a gridare come un pazzo e le ha stracciate dicendo che non vuole più vedere simili oscenità. Gli ho riso in faccia e gli ho detto di smetterla di frugare nelle mie cose e di pensare ai fatti suoi. In quanto alle fotografie” ha aggiunto “se avresti cercato meglio, ne avresti trovate otto, molto più belle di queste, con su due uomini invece che uno solo”. E stesse sicuro che ne avrei fatte arrivare delle altre.[…] Era cianotico dalla collera. […] Prima di venir via ho presa una foto di George Danzigger [altro modello che posava per “Adonis”], in formato cartolina, in cui è ritratto nudo, di spalle, e l’ho messa in cornice sul mio comodino. Coi miei non voglio più fingere. Sono un invertito; ebbene non è colpa mia, che essi lo sappiano. E quando si saranno abituati all’idea di avere un figlio omosessuale, ti porterò a casa mia e ci chiuderemo finalmente in una camera. Vivremo felici qualche anno poi m’ucciderò…”.

Non potei trattenermi e con voce rauca lo interruppi: “Perché ucciderti se pensi d’esser felice? Ci si uccide quando si è tristi, quando non si ha una via d’uscita e si è disperati”. Rise e le labbra si schiusero scoprendo i denti candidi. “Ma non sarò felice quando mi ucciderò. Perché allora non ci ameremo più; tu avrai trovato qualcun altro che ti parrà di amare di più e così anch’io. E poi la felicità è solo illusoria. Come adesso. Siamo vicini, ci baciamo, sappiamo tutto l’uno dell’altro, crediamo di essere felici quando ci sdraiamo lungo i fossi, nei campi, eppure ad analizzare bene non siamo stati più tristi che in questi momenti, più soli e doloranti”.

Mi faceva male sentirlo parlare così e il mio cuore si rattrappiva in un dolore acuto che mi stordiva. Poi si alzò di scatto, mi salutò frettolosamente e partì.

Sapevo che si sarebbe fermato alla periferia della città, vicino alle prigioni, alla ricerca di qualche occasionale compagno. Ma non ne soffrivo. Rimasi seduto a guardare il cielo con pochissime stelle, limpido e immenso. Mi sentivo piccino, inerme, solo. Un terrore arcano, inspiegabile, mi fece fuggire in camera mia, dove silenziosamente piansi, sdraiato bocconi sul letto”.

Qui termina la giornata di L.P. e, purtroppo, nulla ci è dato di sapere della sorte di Gianni.

Non stupisca il clima a tratti un po’ cupo: non era facile vivere la propria omosessualità negli anni Sessanta. Nel diario trova spazio anche la gioia e la malizia, come nel racconto della vita in collegio, con censori ligi al dovere e compagni che maliziosamente giravano nudi per le camerate e che nascondevano sotto il materasso riviste scandalistiche come “Le Ore” o “Grand Hotel”.

L.P. ha deciso di non bruciare il diario nella speranza che il suo gesto inviti altri a conservare lontani ricordi: “una vita senza memoria è nulla”.

Cerco diari, lettere, testimonianze anteriori al 1965 di omosessuali. Le memorie così raccolte potrebbero avere spazio in una pubblicazione futura. Garantisco, se richiesto, l’anonimato dell’autore e delle persone eventualmente citate. Vi prego di contattarmi alla mia E-Mail: stefanobolognini@libero.it.

di Stefano Bolognini

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