Perché ho così bisogno di te: quando amare fa troppo male

Intervista a Mattia Cis, psicologo esperto in dipendenza affettiva.

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Mattia Cis
8 min. di lettura

The greatest thing you’ll ever learn is just to love and be loved in return. Su questa frase della nota canzone di David Bowie si apriva il capolavoro di Baz Luhrmann, Moulin Rouge! Il musical iconico del 2001 poneva già l’attenzione su una riflessione molto importante. In effetti, la cosa più grande che possiamo imparare è amare e lasciarci amare. Tuttavia, tale insegnamento richiede un lavoro interiore di consapevolezza del nostro vissuto e azione sul nostro presente. Solamente grazie a queste due componenti possiamo costruire un vincolo sentimentale basato sulla reciprocità, l’intimità e la progettualità. Mattia Cis si dedica proprio a questo: fornire strumenti pratici per poter godere di un amore sano con maturità e resilienza, finalmente liberi dalle catene del passato.

Mattia Cis è psicologo e psicoterapeuta specializzato in traumi relazionali. Insegna presso l’ISeRDiP (Istituto per lo Studio e la Ricerca sui Disturbi Psichici) ed è co-fondatore di GPO (Gli Psicologi Online), la piattaforma di supporto psicologico a portata di click. “Perché ho così bisogno di te” è il suo primo libro, edito da Vallardi, nel quale raccoglie la sua esperienza decennale in campo clinico per fare luce su un tema dilagante e quanto mai attuale: la dipendenza affettiva. I falsi miti sull’amore che pervadono la nostra cultura, uniti a traumi personali non elaborati, contribuiscono ad aumentare le probabilità di entrare in relazioni disfunzionali dalle quali è difficile uscire. Con una scrittura che alterna la dissertazione alla riflessione, il Dott. Cis si rivolge al lettore con dolcezza e rispetto, scaldando l’oggettività analitica con il calore dell’empatia. Dopotutto, come afferma l’autore, “nessuna sapienza è efficace senza affetto”. Il risultato è un’opera che si contraddistingue per essere esaustiva e balsamica al tempo stesso. “Perché ho così bisogno di te” è un testo eccezionale nel panorama psicologico italiano; un libro che riesce a donare il lume della consapevolezza e la forza di ricominciare ad amare.

Che cos’è la dipendenza affettiva?

La dipendenza affettiva disfunzionale è un tipo di relazione in cui due persone continuano a stare insieme seppur non sufficientemente felici o realizzate. È un legame che non porta alla serenità o alla realizzazione di sé, bensì è fonte di sofferenza. Eppure, malgrado l’infelicità, tra i due membri si crea un laccio disfunzionale che non si riesce a sciogliere. Ci tengo ad aggiungere la parola “disfunzionale” perché tutte le relazioni prevedono, in realtà, un certo grado di dipendenza. Quando siamo in una relazione con qualcuno, quello che facciamo ha sempre un effetto sull’altro (e viceversa). Più l’altra persona è significativa per noi e più si crea un’interdipendenza dall’altro. La dipendenza funzionale è quella che scegli liberamente, dal momento che scegli di abdicare a una parte di libertà per stare dentro una relazione che credi che migliori la tua vita.

Esiste dunque una correlazione lineare tra dipendenza affettiva e relazione tossica?

Sì, io li considererei sinonimi, sebbene il termine corretto è “relazione di dipendenza disfunzionale”. “Relazione tossica” è un modo di dire, una maniera di esprimere un concetto in parte corretto in versione più pop. Se un giorno questa modalità relazionale sarà classificata come una psicopatologia, secondo me verrà effettivamente classificata nell’ambito delle dipendenze, poiché ha tante caratteristiche simili. Ciò nonostante, dal momento che si parla di difficoltà emotive e relazionali, credo che usare un termine meno dispregiativo e più realistico permette alle persone di avvicinarsi in maniera più consapevole e analitica a quello che sta accadendo loro. Il concetto di dipendenza affettiva disfunzionale è molto più complesso. Nel libro cerco proprio di superare questa semplificazione che fa più presa a livello di marketing. Penso che noi psicologi dobbiamo imparare a comunicare certe cose senza rinunciare alla complessità.

Nel libro scrivi che, per mantenere saldi i nostri confini, bisogna imparare a “godere della solitudine, attaccandoci prima di tutto a noi stessi”. In questo modo però non si rischia di arrivare all’estremo, amando così tanto la solitudine da non essere più in grado di entrare in relazione con l’altro?

È una questione di interpretazione. Se la solitudine diventa un meccanismo di allontanamento dall’altro, allora quella solitudine è un sintomo, è un meccanismo di difesa. Quando parlo di solitudine mi riferisco al fatto di ricordarci che in qualsiasi momento, anche quando siamo innamorati e in parte dipendiamo da qualcuno per la nostra realizzazione, siamo sempre al sicuro con noi stessi. Quindi, se le cose non vanno, possiamo staccarci in qualsiasi momento perché siamo indipendenti. Imparare ad essere indipendenti non silenzia il nostro bisogno dell’altro, piuttosto crea il terreno di sicurezza interiore che ci permette di scegliere l’altro per quello che è, con maggiore libertà, solidità e serenità, senza cercare nella relazione qualcosa che mi rassicuri. Perché se vivo l’altro come fonte della mia sicurezza, allora non è amore ma attaccamento. E l’attaccamento mi rende dipendente in modo disfunzionale.

In una coppia è molto frequente che il suo funzionamento non sia “basato sulle reali necessità dell’adulto ma su quelle del bambino”. Questo è “un presupposto che mette le basi per una sofferenza del legame”. Perché l’attaccamento del bambino spesso vince sulla capacità dell’adulto di creare nuovi schemi?

Il cervello ha tre stratificazioni: tronco encefalico, sistema limbico e corteccia. Vorrei porre l’attenzione sulle ultime due: la parte corticale (anche detta neocorteccia), che abbiamo noi esseri umani, riguarda tutte le funzioni cognitive, come il ragionamento e il linguaggio. La parte subcorticale (o sistema limbico) riguarda la parte emotiva. Quando parliamo di schemi legati all’attaccamento non ci riferiamo agli schemi della corteccia, dal momento che avvengono in una fase di vita in cui non abbiamo nemmeno il linguaggio. Riguardano totalmente il sistema limbico-emotivo. Sono qualcosa che l’evoluzione ha selezionato per noi. Gli schemi che noi impariamo nelle fasi di attaccamento, nei primi mesi di vita, sono radicati nelle nostre paure ed emozioni più profonde, e sono legati alla sicurezza e alla sopravvivenza. Quando gli eventi di vita sono collegati a questioni di vita o di morte rimangono impressi nella nostra mente in maniera indelebile, anche a distanza di 30-40 anni. Nel libro c’è un capitolo in cui lo spiego in dettaglio. Le dinamiche di attaccamento si riattivano poi nell’innamoramento da adulto, indipendentemente da quello che abbiamo imparato nella nostra cultura o dagli schemi che sono incarnati nello strato corticale. Anche le persone più evolute, che a lavoro hanno un’altissima capacità cognitiva, quando si ritrovano in certi innamoramenti perdono completamente quella capacità. Ma è perché sta lavorando un’altra parte del cervello che non è la corteccia. Questo per far capire come mai a volte gli schemi culturali non parlano con gli schemi evolutivi. Non solo sono due parti del cervello differenti, ma soprattutto gli schemi evoluti hanno un potere emotivo fortissimo. È per questo che bisogna essere consapevoli.

Quanto è importante fare coming out all’interno del proprio cammino di consapevolezza?

Inizio col dire che il coming out è un percorso, all’interno del quale farei una separazione tra due passaggi, che sono distinti e hanno funzioni un po’ diverse: coming out con sé stessi e coming out con gli altri. Fare coming out con sé stessi significa capire chi siamo e quali sono i nostri bisogni. E questo ha i suoi tempi. Il primo step del percorso è la definizione. La definizione è fondamentale perché crea un contenitore dal quale possiamo partire. Dopodiché, il coming out con sé stessi è, secondo me, il passaggio dalla definizione all’accettazione di sé. Quella cosa che ho capito che sono, quel funzionamento che mi rappresenta, mi va bene e lo assumo come qualcosa di mio. Successivamente, a mio avviso è importante fare coming out anche con gli altri – ovviamente con i nostri tempi, senza obblighi e con le persone che noi vogliamo. In merito alle relazioni affettive, come facciamo a passare attraverso l’esperienza di essere amati per quello che siamo senza dire all’altro quello che siamo? È impossibile. Se non lo facciamo rischiamo di sentirci amati solo per una parte, e quindi ci sentiamo un po’ degli impostori o sentiamo che quell’amore lì non arriva pienamente al nostro cuore. Pertanto, in tutte le esperienze, anche nella mia, il coming out è sempre un’esperienza di amore che ricevi, perché ti senti visto più profondamente e in maniera più integrata. Questo è fondamentale per potersi sentire amati.

Purtroppo ancora oggi l’eterosessualità è solita rientrare nelle aspettative che molti genitori hanno sui figli. Quando questa non è esaudita, la sensazione è quella di sentirsi deludenti e sbagliati. Credi che questa situazione influenzi le probabilità di entrare in una dipendenza affettiva disfunzionale?

Certo. L’essere LGBT ci rende più vulnerabili rispetto alle dipendenze affettive disfunzionali, così come l’essere parte di qualsiasi minoranza considerata socialmente inferiore. L’immagine che abbiamo di noi è fondamentale. Se abbiamo un’immagine negativa cercheremo qualcuno che la confermi, dandoci qualcosa che ci fa star male perché ci corrisponde. L’orientamento sessuale non rappresenta la nostra identità in toto, ma è una parte importante e significativa di noi. Se ci sentiamo rifiutati, non visti e non riconosciuti in quell’aspetto, tale esperienza ci lascia un segno, un’idea di noi negativa in ambito affettivo. Questo può influenzare la scelta di un partner che faccia la stessa cosa, riproducendo lo stesso meccanismo di rifiuto che è tipico delle dipendenze affettive disfunzionali. Ad esempio, c’è un partner che rifiuta, è sfuggente e non generoso, e un altro che corre dietro, prende le briciole e si fa andar bene quel poco perché è ciò che ha imparato nella relazione con il genitore (o l’adulto di riferimento). Questo dunque riguarda sicuramente il mondo queer ma anche, ad esempio, le donne eterosessuali, dal momento che interiorizzano l’idea che non sono in diritto di chiedere o di avere quello che vogliono, e quindi devono accontentarsi di una persona maltrattante.

Tutto ciò ha a che fare sempre con gli schemi legati all’attaccamento?

No, in questo caso le dinamiche di attaccamento non c’entrano. Nel libro dico infatti che ci sono altre variabili importantissime che possono influenzare il modo in cui ci innamoriamo e stiamo in relazione con qualcun altro. L’attaccamento è una delle componenti, ma non è l’unica. Sono tanti i fattori su cui dobbiamo porre l’attenzione. Ad esempio: la formazione della nostra autostima, quanto ci sentiamo degni di poter essere amati, la presenza di senso di colpa nel nostro funzionamento, la presenza di traumi, avere una diversità o essere parte di una minoranza… Ognuno di noi porta un coacervo di esperienze, modelli e traumi che poi mettiamo nella relazione con l’altro e che possono predisporre all’entrare in legami di dipendenza affettiva disfunzionale. Quello che si fa in terapia è precisamente cambiare i nostri schemi, lavorando però su tutti e non solo sull’attaccamento.

In che modo l’esperienza del bullismo omo-bi-transfobico vissuto durante gli anni scolastici condiziona il percorso di costruzione della nostra autostima e aumenta la possibilità di cadere in relazioni disfunzionali?

Il bullismo ha un impatto molto forte sulle nostre credenze alla base della nostra identità. Se veniamo offesi, rifiutati e feriti dai nostri gruppi di appartenenza avremo un’immagine di noi svalutata, più debole e fragile. E dunque porteremo quella persona nelle nostre relazioni affettive. L’essere vittime di violenza psicologica e verbale all’interno di un gruppo può farci pensare che stiamo correndo un rischio di vita in quel momento, così come accade per l’abuso o le molestie. Sono esperienze così potenti dal punto di vista emotivo che possono vincere su tutto. Per questo ci tengo a sottolineare che il bullismo non è solo una questione di credenze negative dentro di noi, ma è una vera e propria esperienza traumatica. Può quindi portare a delle memorie, anche corporee, legate allo stare in presenza dell’altro che possono sfociare nel rifiuto delle relazioni o in veri e propri disturbi nella sessualità. Sicuramente un buon attaccamento può essere un fattore protettivo, ma, come dicevo prima, ci sono tanti altri fattori che influiscono sulla probabilità di entrare in relazioni di dipendenza affettiva disfunzionale.

C’è un consiglio che vuoi dare alle persone LGBT che ci leggono?

Domanda difficile. Non mi sento in diritto di poter dare un consiglio specifico e generale al tempo stesso. Tuttavia, un messaggio importante che vorrei dare è il seguente: tutti abbiamo diritto di essere felici e stare bene. Quando non è così, nessuno deve sentirsi perso. Nessuno deve credere che non esista quella possibilità. In qualche modo dobbiamo trovare dentro di noi quella parte che crede nella possibilità di stare meglio; quella parte che crede di poter avere delle relazioni buone che ci facciano bene. Dobbiamo aggrapparci con tutte le nostre forze a quella parte lì e vedere dove ci porta – se ad iniziare una terapia o a fare altre esperienze di valore; qualsiasi sia la strada che ci possa portare verso un’evoluzione positiva, partendo da quella parte di noi che crede che possiamo stare bene. Il mio suggerimento è di connettersi con quella parte lì, perché tutti ce l’abbiamo. Tutti siamo in diritto di stare bene.

Alla fine del libro scrivi un ringraziamento speciale a tuo marito, che ti ha “insegnato che la vita può essere un luogo felice”. Per te, quindi, che cos’è l’amore?

Secondo me è l’accettazione reciproca dell’altro e di noi stessi dentro la relazione. È quando smettiamo di vivere l’altro come la fonte di qualcosa che ci serve perché non ce l’abbiamo. È il tentativo che facciamo di metterci nella relazione con l’altro per quello che siamo, con i nostri bisogni e vulnerabilità, con la libertà di essere noi. È quando cerchiamo di andare incontro all’altro per quello che è, aspettandoci che l’altro faccia lo stesso. È accettare che l’altro abbia le sue caratteristiche, i suoi difetti, i suoi tempi di maturazione. È un accompagnamento reciproco in cui la relazione ti serve per crescere. Diventa una forma di esaltazione di te e non di limitazione. Le relazioni basate sul vero amore, quindi anche l’amicizia, sono necessariamente relazioni in cui si cresce assieme, in cui si coevolve. Questo è l’amore per me.

Foto: @dott.mattiacis, Instagram

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