TORINO – Sangue, ematomi, pugni e mani alzate, botte ripetute e fratture a go-go, ferite e violenza generalizzata. Gli schermi del Togay si tingono di rosso (non solo per i porno) e di viola (per i lividi) tanto che il canadese Guy Maddin – una delle vere sorprese di quest’anno, un autore che si ispira al cinema classico in bianco e nero creando suggestive commistioni di generi – riesce persino a riprendere un’intera partouze a base di schiaffoni e manate nello spassoso cortometraggio ‘Sissy Boy Slap Party‘.
Questa inflazione di crudeltà decreta a sorpresa il ritorno di un genere poco frequentato dal cinema omo, il thriller: nel cupo e scabro ‘L’ennemi naturel‘ di Pierre Erwan Guillaume la morte per sfracellamento sugli scogli di un giovane bretone è oggetto d’indagine del giovane ufficiale Nicolas Luhel (il fascinoso Jalil Lespert di ‘Risorse umane’) che non crede all’ipotesi dell’incidente. Il principale testimone però si toglie la vita dopo che Nicolas ha tentato invano di interrogarlo e i paesani iniziano a diffidare del poliziotto invitandolo persino a lasciare un ristorante dove stanno pranzando i parenti del suicida. Il sospettato numero uno è il padre del ragazzo, il burbero Serge Tanguy (il bravissimo Aurélien Recoing), un operaio ossessionato dal sesso e sconvolto dalla morte del figlio. Luhel scopre dall’altra figlia che l’uomo aveva pericolose tendenze incestuose ma inspiegabilmente ne resta attratto. Inizia a spiare i suoi incontri amorosi (e rimane affascinato dal suo enorme sesso) e la scoperta di queste pulsioni omo (ha una moglie e un bambino piccolo) lo sconvolgeranno al punto di tentare il suicidio coi barbiturici. Sarà lo stesso Serge a salvarlo ma nel finale aperto si intuisce che l’uomo voglia rapirlo.
Nonostante una certa tendenza al compiacimento e allo struggimento francamente fastidiose, il film ha momenti intriganti (la carnalità di Tanguy e l’incapacità di rendere concrete le pulsioni di Nicolas sono rese molto bene con riprese di diversi nudi integrali non gratuiti) e se ci fosse un premio ai migliori attori i due protagonisti lo meriterebbero sicuramente.
Meno convincente ‘Le clan‘ di Gaël Morel, storia delle scorribande di tre fratelli dal rapporto controverso: il ventiduenne Marc disprezza il diciassettenne Olivier e ha un’adorazione per la testa calda Christophe, appena uscito di prigione. Arriverà addirittura a farlo picchiare e a uccidergli il cane. Se gli attori hanno un certo carisma (funzionano bene soprattutto i magnetici Nicolas Cazalé e Stéphane Rideau) manca un approfondimento psicologico dei personaggi e spesso il film gira a vuoto.
È invece raro trovare un film gay che mescoli con calibrata attenzione dolcezza e atrocità, sentimento e violenza, solarità e tenebre, tenerezza e crudeltà, amore puro e perverso abuso sessuale come in ‘Mysterious Skin‘ di Gregg Araki, presentato fuori concorso (l’uscita italiana a cura di Metacinema è rimandata al 27 maggio). L’abilità con cui Gregg Araki si era divertito a provocare con espliciti effetti gore in erotiche parabole su maledettismo e adrenalinica liberazione sessuale (‘Doom Generation’ e ‘Nowhere’) si fa qui maestria registica in cui i toni diventano meno febbrili ma più appassionati. Tratto dal libro omonimo di Scott Heim, racconta dell’amicizia di una vita tra due ragazzi bizzarri, Brain e Neil: il primo crede di essere stato rapito dagli alieni da piccolo e il secondo si prostituisce nel ricordo nostalgico di una relazione che ebbe a otto anni col bell’allenatore di baseball biondo e baffuto. Ricostruiranno insieme un episodio di violenza vissuto insieme da piccoli. Due scene forti e splendide: l’incontro col cliente malato di Aids che mostra a Neil le macchie sulla pelle causate da un sarcoma e il primo bacio a colazione con l’allenatore, temuto e desiderato allo stesso tempo.
Un thriller claustrofobico coprodotto da Usa e Canada è invece il ripetitivo ‘Ethan Mao‘ di Quentin Lee (‘Drift’), ossessivo kammerspiel sul rapimento organizzato nel Giorno del Ringraziamento da una coppia gay, il prostituto Ethan e lo spacciatore Remigio, ai danni dei genitori del primo, una sorta di vendetta famigliare che rischia di finire in tragedia.
Affascina invece ‘Poster Boy‘ di Zak Tucker, girato con stile documentaristico e una fotografia apparentemente sciatta, sulla campagna elettorale di un senatore ultraconservatore del North Carolina, Jack Kray, messa alla berlina dalla dichiarazione pubblica di omosessualità del figlio Henry che durante un comizio in un college bacia davanti a tutti il proprio fidanzato Anthony.
Tra le poche commedie viste al festival, assolutamente inutile lo sciocco ‘Quand je serai star‘ di Patrick Mimouni, insulsa commediola su una starnazzante attrice parigina, Diane de Montalte (un’Arielle Dombasle sempre sopra le righe) e il suo rapporto col figlio gay che fa lo steward. Appartamenti supereleganti, snobismi tipicamente francesi e irritante inconsistenza narrativa.
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