Forse non tutti sanno che, recitava una vecchia rubrica di un noto settimanale, quello che viene considerato il primo Pride italiano si svolse per le strade di una vivacissima Pisa il 24 novembre del 1979. L’Italia era ancora nel pieno della contestazione studentesca e operaia, erano gli anni della liberazione sessuale, si affermavano i collettivi femministi e il movimento lgbt era ancora un embrione di quello che è diventato negli anni, ma cominciava a prendere forma e consistenza a partire da alcuni avvenimenti cruciali. Alla marcia parteciparono centinaia di omosessuali a viso scoperto e decine di associazioni a sostegno dei diritti civili. Abbiamo intervistato Andrea Pini che di quegli avvenimenti fu tra i principali animatori e protagonisti.
Quel corteo, considerato il primo Gay Pride italiano, si svolse a Pisa a dieci anni esatti dalla rivolta di Stonewall: pura coincidenza?
Assolutamente no. Era il frutto del ritardo tutto italiano su certi temi. Le prime cose si erano già organizzate a partire dal 1971, quando nacque la rivista “Fuori”, legata al Partito Radicale, che promuoveva iniziative di vario genere. Nel ’78, poi, si erano comicniati a formare, sull’onda della contestazione, i primi collettivi spontanei, nati dalla vicinanza con il movimento studentesco e i temi che affrontava anche in termini di identità di genere, come facevano le femminsite. Da tutti questi stimoli, prese forma quella manifestazione.
Quale fu la spinta decisiva che vi portò all’organizzazione del corteo e della giornata di studi?
Quello di allora era un movimento sparpagliato, ancora fragile e disorganico, ma c’erano già stati fermenti importanti, come il libro di Mario Mieli “Elementi di critica omosessuale” uscito nel ’77 che noi consideravamo come una sorta di manifesto. “Fuori” rompeva con il perbenismo dilagante in quegli anni, poi arrivano la liberazione sessuale e il femminismo e nasce il primo gruppo gay a Pisa, Orfeo, di cui facevo parte. Eravamo giovani ed entusiasti: tutto ci sembrava possibile. E poi, nello stesso anno, c’era stato il primo Gay Camp italiano, in un campeggio di Capo Rizzuto, in Calabria: una vera e propria bomba a mano nei nostri corpi, un’esperienza così intensa che nessuno di noi ne aveva mai provata una simile prima. Per non parlare dei tanti, troppi, episodi di violenza di quegli anni, anche a Pisa e a Livorno di cui alcuni sfociati nell’omicidio.
Qual era il messaggio che volevate lanciare scendendo in piazza, insieme a gay e lesbiche arrivati da tutto il Paese, per la prima volta quel giorno?
Innanzitutto volevamo che fosse chiara la nostrap osizione contro la violenza che stava colpendo molti di noi e poi volevamo dire “Esistiamo, siamo qui e non ci vergognamo più”. Volevamo diventare un soggetto di riferimento, un interlocutore, volevamo esprimere consapevolezza pubblica.
Quante persone sfilarono per le strade della città il 24 novembre del ’79?
I giornali scrissero “alcune centinaia”. Penso che fossero intorno ai 500: un numero strabiliante se considerate l’epoca e la natura del corteo. Fu un grande successo. Come scrive Gianni Rossi Barilli nel suo “Il movimento gay in Italia”, bisognerà aspettare il Pride di Roma del 1994 per avere un altro corteo di quel valore. E io aggiungo che per vedere un corteo con i numeri dei pride delle altre capitali europee, abbiamo dovuto attendere il World Pride del 2000.
Cosa cambia dopo il corteo di Pisa?
La consapevolezza. Avevamo capito che si poteva fare il salto di qualità, che potevamo non limitarci più a scrivere di noi sulle nostre riviste come “Fuori”, “Lambda” o la “Pagina Frocia” di Lotta continua. Potevamo scendere in piazza senza essere ammazzati, potevamo avere una visibilità piena, anche se quella della visibilità è una strada piena di gradini, di difficoltà, non ancora conclusa.
A distanza di 30 anni, qual è la ragione che vi ha spinti a creare il “Comitato Pisa ’79”?
Di certo non la nostalgia: voltarsi indietro solo per nostalgia è del tutto inutile. Quello che vogliamo fare è rendere collettiva la memoria di quei fatti e di quegli anni. Il movimento lgbt ha un forte bisogno di riappropiarsi della memoria, per rafforzarsi, per non fare gli stessi errori. Chi non ha memoria, non esiste. L’iniziativa che stiamo pensando per il prossimo novembre in occasione dell’anniversario non vuole fine a se stesso, perché sarebbe inutile. Vogliamo che sia un punto di partenza dal quale cominciare a trasmettere la memoria alle nuove generazioni, ma anche un’occasione per fare il punto di questi ultimi 30 anni, di cos’è cambiato e di cosa, invece, deve ancora cambiare, di quali sono adesso le nostre istanze e di come ottenere risposte.
A proposito di punti di partenza, sappiamo che avete un appello da lanciare a chi ci legge.
Sì, vorremmo che a quest’iniziativa dessero il loro contributo quante più persone. Chiunque abbia foto, immagini, collezioni di riviste gay dell’epoca, documenti di qualsiasi genere, ci contatti. Ma anche chi è curioso di sapere, chi a quei tempi, magari, non era neanche nato, ma ha voglia di conoscere la storia. Se ci limitassimo a una sola giornata di convegno, sarebbe uno spreco di risorse inutile, invece vogliamo che da questa iniziativa nascano video, libri, raccolte. Insomma, vogliamo che sia una tappa, non l’unica, di un percorso più ampio attraverso la nostra storia.
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(le foto sono di Alessandro Chiti)
di Caterina Coppola
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