Joaquim Pinto ci racconta il suo lirico documentario sull’Aids

Nel toccante "E adesso? Ricordatemi" il regista e tecnico del suono portoghese videoregistra un anno di cure sperimentali contro HIV ed epatite C, vissuto insieme al marito Nuno, anch’esso malato.

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“Il mio nome è Joaquim. E la mia vita non ha nulla di speciale”. È l’incipit di un toccante documentario presentato al Torino Film Festival, “E agora? Lembra-me” (“E adesso? Ricordatemi”) del portoghese Joaquim Pinto, lirico videodiario di un anno di trattamenti con interferone e ribavirina del regista stesso, affetto da una ventina d’anni dal virus HIV e dall’epatite C. Senza indugiare minimamente nel patetismo o nell’autocommiserazione, Pinto firma un’elegia intima anche vitalistica di un atto di fede nei confronti della vita (“credere per credere” è il mantra del film) in cui la malattia viene vissuta come un sussulto di consapevolezza per trovare una nuova strada da percorrere, in particolare attraverso la riscoperta di una dimensione naturale nell’acquisto di una casa in compagna con terreno dove va a vivere insieme all’amatissimo marito Nuno Leonel, anch’egli malato, e ai suoi adorati cani. Ed è proprio questa magnifica storia d’amore – infiammata da una splendida scena di sesso esplicito in penombra – che mostra la passione matura scevra di sentimentalismi fra il timido regista e Nuno, magnifico Cristo credente che conosce a memoria la Bibbia e si arrabbia quando i sacerdoti sbagliano le citazioni, a infondere speranza e vitalità al calvario curativo (anche Nuno ha avuto un collasso fisico, arrivando a perdere venti chili in tre mesi). Joaquim inizia a studiare il virus “troppo piccolo per dargli un colore”, come se cercasse di non vederlo come un aggressore maligno ma qualcosa di naturale, esattamente come un’ape che tenta di cibarsi di un hamburger; diventa assetato di conoscenza, frequentando assiduamente biblioteche e cineteche; ricorda la perdita per Aids di cari amici: il regista Derek Jarman, il teorico queer Guy Hocquenghem, il critico cinematografico Serge Daney e molti altri; ripercorre la sua carriera sui set di mezzo mondo come stimato tecnico del suono per Monteiro, Schroeter, Téchiné, Ruiz e De Oliveira, ma anche come regista e produttore; racconta i terribili effetti collaterali del trattamento medico che poi interrompe (perde i denti e la memoria a breve termine); analizza il mistero di una grotta protettiva come un ventre materno.

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“E agora? Lembra-me” sorprende per la sua lucidità mai narcisistica e ha una sua lodevole tenuta nonostante la durata fiume di 164 minuti (indugia unicamente per qualche minuto nell’ipnosi contemplativa di una libellula) grazie a uno stile sorvegliato che ricorda le videoricerche poetiche di Pippo Delbono: non è un caso che entrambi siano stati premiati all’ultimo Doc Lisboa. Joaquim Pinto in questi giorni non sta molto bene e non ha potuto essere presente al Torino Film Festival ma ci ha concesso un’intervista via mail.

Com’è nata l’idea di un documentario così lirico e toccante?
L’idea di fare questo film è nata quando ho saputo che ero stato finalmente incluso in un protocollo per un trattamento clinico. Mentre studiavo l’argomento mi sono reso conto che non solo i film ‘in prima persona’ su HIV e HCV (il virus dell’epatite C, n.d.r.) sono quasi scomparsi, ma c’è una nuova onda di opere revisioniste che hanno manipolato i dati e le dichiarazioni degli scienziati in modo vergognoso. Ho scritto una lunga serie di note prima di girare. Ovviamente non avevamo uno script predefinito perché il film nasce dall’idea di essere aperto al corso degli eventi e al mondo. Un aspetto che mi ha fatto utilizzare la videocamera come memoria è stata data dal fatto che ho perso i ricordi di molte cose successe durante l’anno in cui ho fatto il primo trattamento sperimentale con interferone e ribavirina. Del 2000-2001 ricordo solo le mie reazioni agli inattesi e aggressivi effetti collaterali e la profonda tristezza che mi hanno causato.

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È stato difficile mostrare così tanto di sé davanti alla videocamera?
Assolutamente no. Penso che ci siano così tante persone che nascondono la propria condizione, almeno qui in Portogallo, perché hanno paura della discriminazione e di essere licenziati, specialmente adesso, con la crisi economica. Così mi sono preso la responsabilità di espormi totalmente. Non sono però la persona giusta per fare un documentario in nome dei molti milioni che non hanno accesso al trattamento. Dopotutto sono un privilegiato. Penso che questa libertà esiga il doversi esporre ed attribuisce al film una valenza politica.

Dove ha conosciuto Nuno? La vostra meravigliosa storia d’amore è profondamente emozionante. Perché Nuno inizialmente non voleva partecipare al progetto e poi ha cambiato idea?
L’ho conosciuto molto tempo fa, prima di girare il mio primo film nel 1987. Abbiamo lavorato insieme in molti film. Abbiamo vissuto insieme dagli anni 90 e ci siamo sposati tre anni fa. Io e Nuno non amiamo molto il cinema contemporaneo e preferivamo pubblicare classici di altri autori piuttosto che fare un nuovo film. Ma l’atto di girare ha cambiato la nostra prospettiva e Nuno non solo si è unito al progetto ma ha ne ha colto totalmente lo spirito. Il film è fatto da me e Nuno e da quella che Nuno definisce ‘la mano di Dio’. Il nostro lavoro è stato trovare connessioni, creare ponti, strutturare queste immagini e suoni, tracce di tempo e spazio in ordine per creare un senso. Se i nostri affetti transpaiono nel film è proprio perché fanno parte delle nostre vite quotidiane.

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Quanto ha influito la malattia sulla vostra relazione?
Penso che ci abbia avvicinato ma non posso dire che cosa sarebbe successo se le cose fossero state differenti.

L’Aids/Hiv è quasi ignorato dal cinema contemporaneo ma la malattia continua a propagarsi. Che cosa ne pensa? È ottimista riguardo a una cura definitiva?
Non sono ottimista, non credo in una cura tra breve tempo. Riguardo al VHC ci sono nuovi farmaci sperimentali ma non arriveranno a molti di coloro che ne hanno bisogno a causa dei costi elevati. Penso che sia triste il fatto che la comunità medica abbia impiegato così tanto a confermare che il miglior modo per prevenire l’epidemia dell’HIV è identificare e trattare subito chi risulta positivo. Se il tuo carico virale è irrintracciabile non puoi trasmettere il virus.

Mi racconta il suo incontro con Laura Betti e il mondo pasoliniano?
Pier Paolo non l’ho mai incontrato. Conoscevo i suoi film, è stato assassinato mentre studiavo economia in Germania. Organizzavo il cineclub dell’Università e ho proiettato alcuni suoi film. Forse mi ha fatto cambiare idea e lasciare l’economia per dedicarmi al cinema. Ho conosciuto Laura Betti più tardi, alla fine degli anni 80. L’ultima volta l’ho incontrata a Taormina dove faceva un reading. Abbiamo fatto insieme il viaggio di ritorno a Roma. Amiamo Pasolini ma anche Visconti, Renoir, Flaherty, Buñuel e Rossellini. Tra quelli con cui ho lavorato, Schroeter e Oliveira. Nuno però lavora con occhi e orecchie e non ha un approccio tecnico ed estetico autoriale rispetto al cinema.

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L’uso della musica e del suono è molto curato. Quanto ha influito la sua esperienza come tecnico del suono e come ha scelto le musiche?
Abbiamo usato suoni registrati durante le riprese tranne poche scene con suono addizionale registrato però sul posto. La musica è stata scelta di giorno in giorno: al mattino selezionavamo le canzoni che avremmo sentito per tutta la giornata.

State lavorando a un nuovo progetto?
Abbiamo appena finito un nuovo film, ‘Il nuovo Testamento di Gesù Cristo secondo Giovanni’, in cui Luis Miguel Cintra, uno dei più importanti attori portoghesi, legge la prima traduzione nella nostra lingua della Vulgata.

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