Il cinema queer messicano contemporaneo è tra i più originali e meno allineati, spesso alla ricerca di rappresentazione di mondi realmente alternativi con uno stile personale e incisivo: si pensi allo sperimentalismo visionario di Julian Hernandez o al quasi omonimo Julio Hernandez Cordon, rivelazione a Locarno 2015 con l’intrigante Te prometo anarquia.
È stato presentato ieri al cinema Mercury di Nizza, durante il festival In & Out che proseguirà fino a domenica per poi spostarsi a Beaulieu-sur-mer e Cannes, il catastrofico-sentimentale Velociraptor di Chucho E. Quintero in cui si immagina che l’Apocalisse sia imminente – si presume per motivi ambientali, visto che il cielo assume minacciosi colori plumbei, ma non viene chiarito – e due giovani amici, Diego e Alex (Carlos Hendrick Huber e Pablo Mezz, dotati di un’espressività fresca e spontanea) scoprono una reciproca attrazione mentre intorno a loro la gente si abbandona a gesti disperanti e il nichilismo impera.
Anche se la questione apocalittica resta piuttosto pretestuosa – il film si concentra sulle baruffe sentimentali tra i due, in particolare sul disagio di Alex nello sperimentare il rapporto anale passivo, e sembra davvero che siano totalmente disinteressati alla fine imminente – e il low-low budget mostra i limiti di una confezione evidentemente artigianale, alcuni momenti di intima confessione, tra speranze di condivisione e scoperta reciproca, ispirano una certa simpatia. Il titolo deriva dalla passione per i dinosauri di Alex, in particolare proprio il Velociraptor che campeggia sulla sua maglietta preferita.
Meglio il lesbico 4:48 (Sulle tracce di Sarah Kane) di Jacky Katu, in cui si tratteggia con buon acume psicologico e una funzionale fotografia desaturata il bel personaggio di Anaïs interpretato da una convincente Aurélie Houguenade, attrice teatrale letteralmente posseduta dal suo ruolo di Sarah Kane, l’acclamata commediografa britannica morta suicida a 28 anni, nella sua ultima opera 4:48 Psychosis. Ma il suo ruolo è conteso da un’altra attrice e il rapporto col regista è sempre più teso e per convincerlo del fatto che sia lei la migliore interprete, Anaïs s’identifica a tal punto con Sarah Kane e con la sua sensibilità esacerbata da stravolgere la propria vita privata: ripercorre i passi della sua eroina in un viaggio euforizzante a Londra, si innamora perdutamente di una donna, cerca di cancellare alcuni tratti della personalità di Anaïs (“Sono io Sarah Kane” rivela a una sua amante). Grazie a una macchina da presa stretta sul corpo della Houguenade, che rischia un po’ di fagocitare l’intero film ma è bravissima a rendere credibile il transfert psicotico, lo spettatore entra nell’universo borderline della Kane fra eccessi fiammeggianti e down depressivi verticali, scoprendo un’artista tormentata di massima creatività.
Potrebbe invece candidarsi al peggiore film gay della stagione e persino vincere, il deludente Fort Buchanan di Benjamin Crotty, imbarazzante e indefinibile ufo cinematografico in cui il fidanzato di un militare in missione a Gibuti si ritrova in una sorta di base militare persa nei boschi (ma sembra una comunità agricola un po’ hippy) insieme a un gruppo di donne sfaccendate che ogni tanto si lasciano a incongrue pulsioni lesbiche, si direbbe per ingannare la noia. Dura solo un’ora e cinque minuti ma sembra interminabile, la recitazione è sotto il livello di guardia e il ciondolamento reiterato non porta da nessuna parte (persino quando vanno a trovare il soldato a Gibuti, unico momento in cui sembra almeno che ci sia un minimo di contestualizzazione militaresca, non fanno altro che oziare e ubriacarsi in festicciole infinite). Vorrebbe scimmiottare l’atmosfera bucolica tipicamente rohmeriana – il protagonista belloccio ma inespressivo, Andy Gillet, aveva recitato ne Gli amori di Astrea e Céladon – ma suona falso e supponente. Pessimo.
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