PESCARA: GREAT EXPECTATIONS.

Una mostra che trasforma le nostre "grandi aspettative" in un set di finzione, desiderio e disagio. In un ex-albergo per ferrovieri, quattro curatori vanno ai margini dell'arte.

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Appena arrivi in una nuova città, soprattutto una città di provincia, osservi e percorri un “set” già noto. Dunque: la stazione… il bar della stazione, l’autobus che aspetta nella piazza, i vecchi che parlano sulle panchine, in fondo alla piazza, della stazione…
Definita nella sua conformazione attuale negli anni Venti del secolo sorso, Pescara è una città senza molti segni di storia se non quella legata alle infrastrutture stesse di cui è composta. Il suo è un passato recente di luoghi comuni e funzioni quotidiane che, pervadendo la nostra esistenza di tutti i giorni, riescono a scomparire di fronte ai nostri occhi. Proprio il quotidiano può allora diventare, visto e vissuto come il set di un racconto quotidiano, lo scenario di un’esperienza eclatante, del tutto imprevista.

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Piazza della Stazione, Pescara. A pochi minuti dai binari del treno sorge il Ferrotel, nome che di sé già dice tutto: ostello per i dipendenti pendolari delle Ferrovie dello Stato negli anni del boom. Come tanti altri luoghi, nella logica del progresso sociale ed economico è divenuto con gli anni uno spazio privo di funzione. Proprio Fuori Uso, manifestazione nata nel 1990 su iniziativa di Cesare Manzo e dell’Associazione Culturale ArteNova, ha nel corso degli anni individuato in tutta la città spazi come questi, “suicidi” di cronaca prima di poter divenire pezzi di storia. Spazi ex: l’ex Liquorificio Aurum, l’ex Scuola di Marzio, l’ex Opificio Gaslini, l’ex Colonia Stella Maris, l’ex Clinica Baiocchi, l’ex Ferrotel. Qui incontriamo i quattro curatori della mostra Great Expectations, che inaugura sabato 29 novembre nell’ambito della XIV edizione di Fuori Uso.
A bruciapelo… una mostra non apertamente gay può manifestare a vostro giudizio una “sensibilità gay”?
Charlotte Laubard: se in questa mostra vi è una “sensibilità gay” essa sarebbe nell’attenzione per sensibilità artistiche marginali, cioè modi di pensiero diversi che rimettono in forse le strutture di pensiero stabilite a priori. Mi sembra che sia più interessante concepire una mostra in questo senso, invece di concepire l'”alterità” solo in quanto identità sessuale o culturale.
Nel ’95, Caravanserraglio, curata da Giacinto Di Pietrantonio, rese Fuori Uso un luogo e un’occasione per l’immaginazione: con “opera in situ”, “esposizione in progress”, “lavoro in collaborazione”, il curatore affermava che le mostre evolvevano in tal modo verso la creazione di ambienti fluidi, reali e visionari, “come il tunnel delle piramidi egizie o come un lungo drago cinese”. Usando l’immaginazione, come definireste voi Great Expectations?

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Marcello Smarrelli: Il Ferrotel era un ostello per ferrovieri, l’immaginario, dunque, è legato a quello di qualsiasi hotel. Qui, però, c’è un valore in più, l’idea di coercizione che nasce dalla funzione di ostello aziendale per soli uomini che si alternavano in continuazione. Questo lungo corridoio con tante stanzette è come un paese delle meraviglie, se vuoi assomiglia ai corridoi con le cabine di relax delle saune o dei bar gay con cruising area. Mi chiedo perché l’immaginario dei gestori di locali del genere vada sempre nella direzione del “fuoriuso”, luoghi un po’ decrepiti, di instabilità diffusa. Dietro le porte chiuse, nella semioscurità, si immagina che stiano accadendo chissà quali cose – sempre le stesse in realtà – e le porte aperte appaiono come altrettante opportunità perdute…
Chiara Parisi: Se ricordo bene, Marcello, non c’era niente di così “romantico” nei nostri primi e-mail… piuttosto che d’immaginazione o immaginario parlerei di visionarietà come punto in comune.
Del resto non è facile affermare il potere dell’immaginazione in generale così come non è facile dar corpo alle proprie visioni, e non solo nell’arte. Che peso hanno avuto proprio le vostre personali visioni nel delineare il percorso di una mostra che non ha un unico curatore, ma quattro, amici fra loro?
C.P.: Io spero che le nostre scelte siano state “prive di senso”, e visto che non esiste assolutamente nulla al mondo senza significato, esse possono averne anche altri. Noi non abbiamo certezze e nessun visitatore dovrebbe avere l’impressione di poter raggiungere alcuna certezza. Realmente l’unica cosa che ci ha unito è stato il desiderio di fare una mostra che si sente nello stomaco.

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M.S.: Della mia formazione cattolica totalmente metabolizzata e quasi irriconoscibile mi è rimasta l’idea che Dio salva i gruppi e mai i singoli e che si deve imparare ad amare i propri nemici. Ma non c’è scritto da nessuna parte che bisogna farseli amici, bisogna amarli come “nemici”. La figlia di sei anni di un mio amico mi raccontava che sceglie sempre di fare la parte della matrigna quando gioca con le amiche a ripetere la favola di Cenerentola. Mi spiegava che nessuno la vuole fare e se lei non si prestasse a questo ruolo sarebbe impossibile giocare. Trovo geniale questa bambina! I liberi tiratori non vanno da nessuna parte, occorre, per vincere come per perdere, una comunità di riferimento, un gruppo di appartenenza. Stare insieme è la cosa più produttiva che esiste.
Cospargendo l’ambiente di elementi olfattivi o uditivi, come nelle opere di De Dominicis e Décosterd & Rahm, o accostando segnali che istituiscono una relazione sul filo del rasoio fra bellezza e violenza, intensità e fragilità, presenza e assenza, come nei lavori di Jackson, Perrone o Sehgal, trasmettete una sensazione quasi “fisica” al visitatore… Sembra che, in effetti, abbiate rinunciato ad assumervi e a svolgere un “tema” e vi siate affidati più alle sensazioni e alla loro capacità di insinuarsi. Potremmo pensare che la mostra come concetto è sovvertita dalla mostra come corpo, che le idee sono, per voi, come un “demone sotto la pelle”…
C.P.: Quando percorri quelle stanze certo non ti senti proprio a tuo agio… e allora si può parlare di qualcosa che ti entra sotto la pelle. Una mostra che non è necessario comprenderla… non ne voglio più sapere di capire! E’ bene imparare a sentire prima ancora di capire. Preferisco la distrazione alla determinazione di un concetto, la possibilità di immaginare un significato piuttosto che la certezza di saperlo circoscrivere…
M.S.: Il lavoro di De Dominicis è per tutti e quattro l’emblema della mostra. D’IO è la registrazione di una risata che rimbomba come un eco infinito e l’effetto doveva essere certamente enfatizzato dai 300 mq della galleria l’Attico di Fabio Sargentini dove venne presentata, nel 1971, per la prima e unica volta. L’artista l’aveva fatta registrare da un attore che, dopo qualche tempo, si tolse la vita. È una risata tragica e comica al tempo stesso, esasperata dall’epilogo imprevisto della vita dell’attore che, così, assume un valore quasi profetico. Abbiamo aperto il percorso espositivo con il lavoro di Dafflon, un’opera che invita a entrare e seguire un percorso. Immediatamente, però, il lavoro di Micol Assaël, l’unica artista donna in mostra, e Jorge Peris nega la garanzia di questo facile accesso e costringe a seguire un percorso insolito e accidentato che stravolge la banalità della pianta dell’edificio. Si crea un momento forte di suspense e di tensione, il preavviso di un danno imminente. Ti ricordi il libro di J. Hart, Il Danno? Diceva che chi ha subito un danno diventa pericoloso perché sa di poter sopravvivere. Noi sopravvissuti siamo tutti un po’ danneggiati, lesi. Soprattutto gli artisti.
Marcello mi fa notare il fatto che, anagraficamente, gli artisti che avete invitato sono tutti maschi tranne una. Proprio Assaël e Peris hanno costretto gli spettatori ad introdursi nella mostra attraverso le vecchie toilette del Ferrotel. Quale ruolo potrebbe avere per voi, in relazione all’idea che molti hanno ancora dell’arte contemporanea, la “provocazione”?
M.S.: Provocare può servire solo per ottenere una “reazione”. Per me tutti e tutto sono talmente uguali nelle reciproche differenze che guardo solo la qualità umana e del lavoro, mai il genere sessuale, la provenienza, il colore della pelle. Mi sembra un pregiudizio moderno, da borghesia illuminata, quello di dover avere una quota di questo e una di quello per essere politically correct: “dobbiamo avere l’artista turco perché è “cool” o quello indiano perché è “trendy” o quello senza un piede perché è… “pazzesco”…

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C.P.: Il lavoro di cui parli è sulla forza architettonica e percettiva, e risponde all’esigenza forte di cambiare l’orientamento monotono delle stanze. Ciò che conta è la sua secchezza, la sua precisione, è anche un gioco nel suo rapporto con la storia dell’arte, senza sfumature. Se il pubblico cede alla provocazione e avrà ancora voglia di irritarsi è perché prova tuttavia una grande difficoltà nel prestare attenzione a qualcosa che “non capisce”. C’è una linea di confine tra il comprendere e il fare esperienza e molta gente pensa che l’arte abbia a che fare con la comprensione, ma non è così, l’arte ha a che fare con l’esperienza.
L’ambiguità, il torbido, il proibito, in che senso potrebbero in Great Expectations essere divenute categorie estetiche? E come spiegate la compresenza con elementi antagonisti come il progetto, la forma, la concentrazione?
Alessandro Rabottini: io credo che questa supposta polarità si dissolva nella vita di ciascuno di noi, ogni giorno. Senza scomodare le teorie su caos, universo e casualità, più semplicemente credo che quando progetti qualcosa tu stia dando forma ad una tua personale inquietudine o, al contrario, quando dai sfogo alle paure o ai desideri più nascosti, crei in qualche modo una nuova coscienza di te stesso che equivale ad una forma chiara, netta, intelligibile. Ormai il concetto di quoziente intellettivo è stato soppiantato da un’idea di intelligenza emotiva… Gli artisti in mostra, anche quando sottolineano il disagio, il disturbo o, al contrario, saturano l’atmosfera di desiderio fino a sfiorare la morbosità, agiscono sempre su un piano visivamente molto controllato. In fondo questa mostra ha un’aria sexy: se ci fai caso, anche per essere seduttivi bisogna essere precisi, sobri, avere le idee chiare… e andare dritto all’obiettivo…    
Anche la morte, il suo alito, o la vecchiaia sono entrate in una mostra per altro dedicata alle giovani generazioni, fin dal titolo. A me sembra che questo presagio della fine sia giustamente evocato armonicamente alla paura della solitudine, all’apatia, abulia e inazione propria di molti giovani… pensate a Elephant di Gus Van Sant. Una paralisi anestetizzante che invoca il sollievo dell’arte…
M.S.: Negli anni di insegnamento al liceo artistico ho imparato che la scuola è un luogo dove si cerca di affrontare la paura e l’angoscia di docenti e studenti attraverso il mito dell’oggettività, della standardizzazione, di un insegnamento che arranca verso il mito della modernità e finisce, invece, per schiacciare ogni differenza, ogni individualità. Il risultato è la noia, l’indifferenza, la non risposta alla non domanda. Una mostra come Great Expectations è come un viaggio non organizzato, dove non sai bene cosa ti aspetti e di cui sei sicuro solo degli imprevisti. Ma saranno proprio quelli a farne un’esperienza diversa e per questo, speriamo, indimenticabile.
Mi verrebbe da aggiungere una domanda, sul cinema come spazio della messa in scena dell’imprevisto – un altro film di Van Sant, Gerry – e mi piacerebbe anche chiedervi che ruolo ha il cinema nel “plasmare” una mostra come questa.  Ma forse, semplicemente occorre visitare questa mostra come se fosse un film. Grazie a tutti/e quattro.
Fuori Uso 2003
Ferrotel, Corso Vittorio Emanuele II, Pescara: Great Expectations
30 novembre 2003 – 8 gennaio 2004. Inaugurazione: 29 novembre 2003, ore 19,00.
A cura di: Charlotte Laubard, Chiara Parisi, Alessandro Rabottini, Marcello Smarrelli.
Artisti: Saâdane Afif (Francia); Micol Assaël (Italia); Roberto Cuoghi (Italia), Stéphane Dafflon (Svizzera); Gino De Dominicis (Italia); Décosterd & Rahm (Svizzera); Didier Fuiza Faustino (Francia); Massimo Grimaldi (Italia); Richard Jackson (Stati Uniti); Johannes Kahrs (Germania); Jorge Peris (Spagna); Diego Perrone (Italia); Pietro Roccasalva (Italia); Michael Sailstorfer (Germania); Tino Sehgal (Germania); Jim Shaw (Stati Uniti); Markus Sixay (Germania); Barthélémy Toguo (Camerun); Paul Thek (Stati Uniti).

di Andrea Viliani

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