“Concedete anche a noi il diritto ad esistere!”
In Italia l’omosessualità non è mai stata reato non perché siamo all’avanguardia, com’è evidente, ma perché il legislatore, quando ha stilato il codice, si è ben guardato anche solo dal nominarla: non sia mai che usare una parola specifica per definire quella cosa significhi ammettere che quella stessa cosa esista e dunque far venire in mente a qualcuno di praticarla, se ha voglia.
In Inghilterra, invece, dove sono parimenti omofobi, tanto che hanno praticamente castrato il precursore dell’informatica, l’uomo che ha salvato loro e il mondo dal nazismo grazie alla decodifica di un codice segreto, ossia Alan Turing, emarginato Justin Fashanu, il primo calciatore di fama mondiale a dichiararsi gay, morto suicida impiccato in un garage di Londra ventuno anni fa, e compiuto innumerevoli altre ipocrite nefandezze, ma meno idioti, essere gay era reato eccome: ai sensi del Buggery Act del 1533, promulgato da quel sant’uomo di Enrico VIII e rimasto di fatto in vigore fino al 1967, si poteva anche finire al patibolo per sodomia.
Naturale, dunque, che Radclyffe Hall non fosse affatto vista di buon occhio.
Di lei, scrittrice raffinatissima, intensa, avvincente, interessante, profonda ma anche lieve, ironica, figlia del suo tempo, che si approccia all’omosessualità come a una malattia, e della mentalità patriarcale e oppressiva ma anche modernissima, dalla prosa intrisa dei fermenti che ribollivano all’epoca, a partire dagli studi sulla psicanalisi, Fandango sta ripubblicando già da tempo le opere.
Tra queste vi sono La vita del sabato, storia di una bambina diversa da tutte le altre, La sesta beatitudine, la vicenda di Hanna, giovane precocemente sfiorita ma sempre pronta ad aiutare gli altri, madre di tre figli avuti da tre uomini diversi, e soprattutto l’incompiuto e inedito Al mondo.
Nata da un’ottima famiglia – i cui beni le permisero di girare il mondo e anche di autopubblicarsi diversi volumi – a Bournemouth nel diciannovesimo secolo, sul finire della puritanissima età vittoriana, Radclyffe Hall, che amava vestire abiti maschili, morì di cancro nel 1943 a Londra.
Il decesso avvenne tra le braccia della sua compagna, la scultrice Una “Vincenzo” Troubridge, cui era legata da quasi trent’anni, da quando cioè aveva perduto il suo precedente amore, la cugina di Una, Mabel Veronica Label, colei che incoraggiò la Hall sulla strada dell’arte.
Il pozzo della solitudine, del 1928, è il suo più celebre romanzo, assai venduto, probabilmente pure grazie allo scandalo che ne è scaturito, anche all’estero: è considerato la prima opera in assoluto a tematica apertamente lesbica, anche se il termine in questione non è mai utilizzato. Si racconta, cosa che costò all’autrice, nonostante fosse sostenuta da personalità come G. B. Shaw e Virginia Woolf e fosse altresì piuttosto acclamata, avendo già vinto il James Tait Black Memorial Prize con La stirpe di Adamo, un processo per oscenità a trent’anni di distanza da quello contro Oscar Wilde, di cui certi personaggi ricordano alcuni tratti, la storia di un’aristocratica.
Che si chiama Stephen (come il protagonista di Al mondo, già citato, volume che a sua volta narra di due esclusi dalla società, un uomo e una donna queer, un impiegato di banca che soffre perché l’asma non gli ha consentito di andare in guerra e una segretaria, Elinor, che vuole a tutti i costi l’indipendenza, in viaggio insieme in nave).
I genitori della protagonista del Pozzo infatti vogliono un maschio, e Stephen sembra davvero esserlo, in tutto e per tutto: la vediamo crescere, la seguiamo per tutta la vita, osserviamo in lei numerosi tratti caratteristici. E per il suo tramite ci accostiamo anche alla tesi che l’autrice propone, che l’omosessualità sia innata e che lo stigma della collettività costringa i gay alla solitudine e all’abiezione: temi che ancora oggi fanno riflettere.
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