Abbiamo visto in Francia l’atteso nuovo film di Ira Sachs, Frankie, che non ha ancora una data di distribuzione italiana. Frankie sta per Françoise, ed è il nomignolo con cui viene chiamata da amici e famigliari Françoise Crémont, diva soprattutto televisiva malata terminale di cancro che si concede con tutta la famiglia una vacanza nella fiabesca località di Sintra, in Portogallo. La interpreta un’imperiale Isabelle Huppert, bravissima nell’evitare il lacrimevole col suo sarcasmo sferzante e dotata di una fotogenia eccezionale che ricorda lei stessa all’inizio del film.
Funziona meno il resto del cast corale, dal marito (Brendan Gleeson), chiuso nello stereotipo del marito addolorato e adorante, al figlio Paul (Jérémie Renier) solo e ‘sistemabile’ da Frankie con l’amica parrucchiera Ilene (Marisa Tomei), fino all’ex marito ora felicemente gay Michel (Pascal Greggory): tutte figurine poco significative sullo sfondo, quasi spaventati nell’interagire con Sua Grandiosità Isabelle – “nessuno può dire ‘no’ a Frankie” ricorda il marito – a cui basta uno sguardo espressivo per dare senso all’intero film.
Il problema è che il bravo regista Ira Sachs – qui sotto i livelli delle sue opere precedenti, da Keep the lights on a Love is Strange – per evitare il pathos plateale fa sì che nessuno parli della malattia, dando spazio a lunghi dialoghi piuttosto superficiali e poco significativi e rendendo l’atmosfera di molte scene slegate tra loro piuttosto rarefatta. L’aspirazione è sicuramente la leggerezza rohmeriana a cui si sostituisce un’inerzia piuttosto ipnotica che non contribuisce all’empatia tra il film e lo spettatore.
Inizialmente, mentre scrivevamo (lui e Mauricio Zacharias, n.d.r.) abbiamo riguardato Il raggio verde di Eric Rohmer, e c’era un umorismo che era molto importante. Si tratta di camminare e parlare. Ma poi pensavo a Fassbinder e Hanna Schygulla, specialmente quando guardavo Isabelle. Perché sai sempre che è Hanna Schygulla, ma è anche Maria Braun […]. Ciò che ho capito meglio è che i film corali sono un modo per evitare il melodramma. Mi piaceva farlo, ma sento che non sono più io. In Frankie c’è un riconoscimento della bellezza e della leggerezza delle cose perché tutta la serietà di una storia viene rapidamente interrotta da un’altra: ce n’è una su una donna che muore di cancro e una su una moglie che cerca di capire se ha abbastanza soldi per lasciare suo marito, ma anche una su una ragazza che incontra un bel ragazzo su una spiaggia portoghese. Si svolgono tutte nello stesso momento e sono tutte ugualmente importanti.
Resta fiabesco l’inedito sfondo rappresentato dalla città di Sintra, nota per i giardini lussureggianti e dal 1995 nella lista dei patrimoni dell’umanità, definita Hans Christian Andersen nell’800 “il posto più bello del Portogallo”.
Peccato non aver dato più spazio al personaggio di Pascal Greggory, la cui ‘conversione sessuale’ raccontata all’ensemble borghese avrebbe dato sicuramente più sapidità all’esile film.
Si può vedere.
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