Il canadese Xavier Dolan rappresenta la più interessante rivelazione registica degli ultimi anni.
Ma attenzione: è uomo di cinema a tutto campo, anche attore, sceneggiatore, montatore e doppiatore – e uno dei talenti più precoci in assoluto: già davanti alla macchina da presa in tenera età come protagonista di spot pubblicitari, esordisce alla regia col folgorante e parzialmente autobiografico J’ai tué ma mère a soli diciannove anni (con sceneggiatura scritta da lui medesimo tre anni prima). Segue l’incantata divagazione romantica bisex Les amours imaginaires, con cui inizia la scalata al Festival di Cannes, dove viene selezionato al Certain Regard, come il seguente, l’epica trans Laurence Anyways che vince la Queer Palm (ma lui detesta i premi gay definendoli ‘ghettizzanti’). Col suo quarto film, il thriller teatrale Tom à la ferme arriva in concorso a Venezia, dove vince il prestigioso Fipresci della critica. Ma Dolan esplode veramente nel 2014 col vibrante Mommy, premio della giuria sulla Croisette (ex aequo con Jean-Luc Godard!).
Arriva finalmente in Italia grazie a Lucky Red, mercoledì 7 dicembre, il suo sesto lavoro, a nostro avviso il migliore, Juste la fin du monde, in cui si riassumono molte tematiche care a Dolan (l’omosessualità non accettata, la famiglia disfunzionale, il rapporto madre-figlio). Tratto dall’omonima pièce di Jean-Luc Lagarce, drammaturgo francese morto di Aids a soli 38 anni, è incentrato sul ritorno a casa, dopo dodici anni di assenza, di un giovane scrittore gay, Louis (Gaspard Ulliel, quasi palpitante), giunto a comunicare la sua morte imminente. Ad attenderlo c’è la mamma appariscente Martine (una perfetta Nathalie Baye), la sorella Suzanne che praticamente non conosce (Léa Séydoux, assai misurata), la timida cognata (un’understated Marion Cotillard) e il fratello geloso e nevrotico, Antonie (Vincent Cassel, il più bravo di tutti). Ma tutti si parlano addosso, berciano incessantemente, emergono conflitti e frustrazioni, nessuno riesce ad ascoltare Louis.
Dolan riesce a rendere cinematografica l’anima teatrale della pièce febbrile tutta dialoghi e interni per lo più casalinghi attraverso un uso sapiente di primissimi piani in calibrati campi e controcampi che esaltano al meglio l’espressività degli ottimi attori. E la passionalità nostalgica del regista emerge nella scena più camp, il flashback ad alta intensità musicale in cui ricorda un amorino giovanile che entra dalla finestra della camera da letto per scatenarsi in un gioioso giro di lenzuola. Lo stile ormai classicamente Dolan c’è tutto, dai ralentis sofisticati alle concitazioni da psicodramma isterico che lui sa gestire benissimo, conferendogli spontaneità e credibilità.
La scena più bella? Indubbiamente il monologo fluviale di Vincent Cassel in macchina, un tour de force borderline in cui tutti i complessi del fratello cresciuto all’ombra del più piccolo e talentuoso esplodono senza possibilità di replica. Incombe sul film un lirismo malinconico dettato dal dolore per l’incapacità di amarsi o almeno comprendersi, per la rassegnazione all’impossibilità di una risposta a causa del tempo tiranno, a cui il volto sofferente e il non detto di Louis infondono uno strazio autentico.
Musiche magnifiche, c’è anche la splendida Natural Blues di Moby.
Vincitore (meritato) del Grand Prix e del premio della Giuria Ecumenica all’ultimo Festival di Cannes.
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