Un piccolo grande film, un delicato e riuscito esordio. Dopo aver incantato il Festival di Berlino, 20.000 specie di Api di Estibaliz Urresola Solaguren arriva nelle sale d’Italia, dal 14 dicembre con I Wonder Pictures, raccontando una storia d’accettazione di sé adolescenziale, un coming-of-age che ha visto la piccola Sofia Otero vincere un più che meritato Orso d’Argento.
Cocó, 8 anni, si sente fuori posto e non capisce perché. Non si riconosce nel suo nome di battesimo, Aitor, né nello sguardo e nelle aspettative di chi ha intorno. Nel corso di un’estate nella campagna basca a casa della nonna – tra le gite al fiume, l’apicoltura e i saggi consigli di sua zia Lourdes – Cocò riesce finalmente ad affrontare i propri dubbi e le proprie paure, trovando la propria vera identità, abbracciando il suo vero nome.
È un film quantomai attuale, quello scritto e girato dalla debuttante Solaguren, che riflette splendidamente sull’identità, sul corpo e sul genere, sulle relazioni familiari e sociali che coinvolgono una persona transgender. In questo caso una bambina, che agli sconosciuti si presenta con un nome da lei inventato, che guardandosi allo specchio si domanda cosa abbia di sbagliato, perché non si riconosca in quel corpo, a differenza di suo fratello e sua sorella maggiore. Sua mamma Ane non vuole imbrigliarla nei limiti del rigido sistema sesso-genere. Asseconda le sue richieste, vedi i capelli lunghi, le unghie pittate e i braccialetti colorati, mentre gli altri continuano a chiamarla con quel nome che lei detesta, Aitor, un nome maschile che sente non appartenerle.
Solaguren, che nel processo di scrittura del film ha conosciuto una ventina di famiglie con bambini trans di età compresa tra i 3 e i 9 anni, alterna ritmi, prendendosi tutto il suo tempo, abbracciando silenzi, dialoghi solo apparentemente secondari, affrontando di petto il peso delle tradizioni familiari, sociali e culturali, mostrando una micro-società che inevitabilmente condizione la giovane protagonista. Sua mamma, scultrice, plasma la cera d’api trasformandola in splendide statue, realizzando corpi perfetti. Cocò, che vorrebbe fare altrettanto sulla propria persona, cerca ascolto, esplicitando domande, preoccupazioni e verità che gli adulti continuano a non cogliere, perché impreparati a farlo. Solo sua zia la capisce, le tende la mano, intuendo un disagio, percependo paure tangibili.
Candidato a ben 15 premi Goya, 20.000 specie di Api colpisce nella sua naturalezza, non solo interpretativa ma anche registica, perché la visione di Solaguren è volutamente naturalistica, fuggendo dall’artificialità, mostrando la realtà nel modo più naturale possibile, negandosi qualsiasi musica extradiegetica, con luci quasi sempre e solo naturali. Sofia Otero, scelta tra 500 aspiranti protagoniste, è semplicemente eccezionale, sbalorditiva. La sua Cocò che si immagina sirena e ape regina è intensa, commovente, incredibilmente vera, in bilico perenne tra il proprio riflesso interiore e quello esteriore, tra percezione di sé e altrui. L’intero film poggia sulle sue docili spalle, con la sempre più lanciata Patricia López Arnaiz negli abiti di una madre che vede sua figlia distante, combattuta, arrabbiata, non capendone la motivazione. Il rapporto tra Cocò e Ane, intenso e al tempo stesso conflittuale, è profondamente tenero, tra silenzi forzati, timide domande e inattese rivelazioni. Solaguren ha volutamente ambientato l’intero film nei Paesi Baschi, divisi da un confine che qui si fa barriera mentale, limite che i suoi protagonisti dovranno superare. Non a caso la regista ha voluto prevalentemente utilizzare il basco, in quanto lingua la cui grammatica non prevede il genere, dando così alla sua protagonista la possibilità di liberarsi da catene linguistiche.
20.000 specie di Api affronta con sapienza la questione dell’identità ampliandone la visione, provando a capire come le relazioni familiari possano influenzare il viaggio verso l’autodeterminazione. Solaguren prende di petto quel sistema che rifiuta e punisce socialmente le zone intermedie che esistono tra i due estremi, ovvero tra ciò che viene considerato maschile e femminile. Un retaggio perfettamente rappresentato dalla figura del padre e dal suo lavoro, che Cocò guarda con orrore e timore, fino ad abbracciare sul finale un crescendo emotivo che colpisce dritto al cuore.
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