“Drag Off the Stigma”, Daphne Bohémien: “Stiamo facendo un buon lavoro, il problema è lo Stato” – Intervista video

Trascinare via lo stigma attorno all’Hiv: Daphne Bohémien racconta a Gay.it la sua storia.

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Daphne Bohémien Gay.it
11 min. di lettura

Sono passati più di trent’anni dall’inizio dell’epidemia di Hiv e, nonostante gli enormi passi avanti fatti in campo medico e in termini di sensibilizzazione, lo stigma attorno a questa malattia che ha causato la morte di migliaia di persone e decimato la comunità LGBTQ+ negli anni Novanta esiste ancora. Forse non viene più chiamata “la malattia dei gay”, ma un po’ di discriminazione, di pregiudizio e di giudizi vengono ancora fuori quando una persona dice di essere sieropositiva.

Drag Off the Stigma” perché lo stigma va trascinato via una volta per tutte e per farlo è necessario continuare a parlarne apertamente, continuare a spiegare che con questa malattia oggi si può convivere, continuare a ripetere che solo aiutandosi e sostenendosi a vicenda è possibile andare oltre i pregiudizi. E abbiamo tentato di farlo parlando con alcunə artistə e performer che hanno usato le loro piattaforme per parlare anche di sieropositività attraverso la loro esperienza.

Daphne Bohémien Gay.it
Daphne Bohémien, artista, performer e divulgatrice

La terza e ultima artista che ha raccontato a Gay.it della sua esperienza con la sieropositività è Daphne Bohémien (@daphne.bohemien), performer e divulgatrice che attraverso la comunicazione social è impegnata nella lotta del transfemminismo intersezionale.

Daphne ci racconta innanzitutto di come la performance e l’arte drag l’abbiano salvata da un tumulto interiore a cui cercava di dare sfogo, e poi di come la sua vita è cambiata dopo la diagnosi. Quando ha scoperto di essere Hiv+, dice, è iniziato anche un percorso su sé stessa e, dopo l’impatto iniziale, le cose che è riuscita a fare e conquistare sono davvero belle.

 

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Daphne Bohémien: come inizia il viaggio nel mondo dell’arte drag?

«Hello! Io sono Daphne Bohémien e sono una divulgatrice performer a livello internazionale da più di 10 anni e mi occupo fondamentalmente di comunicazione attraverso i social. Daphne come progetto artistico nasce dall’esigenza di tirare fuori un mostro che facesse più paura dei mostri che avevo dentro. Avevo un tumulto interiore e non sapevo come farlo uscire. Da lì è nata la necessità di trovare uno sbocco che fosse artistico e un personaggio creepy, horror, che voleva tenere distanti le persone, nonostante poi in realtà fosse un lavoro a contatto con le persone. Poi in realtà il personaggio è cresciuto esattamente come sono cresciuta io. Le mie esigenze sono cambiate ed è cambiata l’esigenza di fare paura, si è trasformata nell’esigenza di creare connessioni. Sicuramente il drag per me è stato terapeutico. Io dico sempre che il drag è terapeutico in quanto innanzitutto arte che può essere alla portata di tutte le persone, perché abbiamo sempre un po’ questa concezione che l’arte drag sia appannaggio dei maschi, cisgender gay e invece non lo è. Siamo nel 2022 e c’è l’esigenza di far capire al mondo che l’arte drag è come la danza, come la pittura, come la musica, come il teatro, quindi è un’arte aperta a chiunque. Nel mio caso mi ha insegnato tanto, mi ha dato più consapevolezza col mio corpo, con la mia sensualità, con la mia sessualità, anche con la mia capacità di comunicazione»

L’arte drag ti ha aiutata anche nel tuo percorso di transizione?

«È stato un percorso bellissimo, mi ha arricchita tanto e mi ha aiutata tanto anche con il mio percorso di transizione medicalizzata perché ad un certo punto, quando ho smesso di fare paura sul palco e ho iniziato invece ad abbracciare una parte di me che avevo un po’ rinnegato, mi sono guardata allo specchio e mi sono detta “Ok, wow, questa cosa è molto bella, mi fa sentire molto bene”. E forse era quello di cui avevo bisogno. Perché poi il discorso della transizione mi ha accompagnata per tutta la mia vita, ma devo dire che con il drag ho capito che la mia espressione di genere voleva essere questa, quindi sicuramente il drag mi ha aiutato tantissimo. Fondamentalmente Daphne da cosa nasce? Nasce da un sacco di disagi, un sacco di tristezza, un sacco di rabbia. Che poi però si sono trasformate e sono diventate un sacco di emozioni positive: la voglia di rivincita, la consapevolezza, la voglia di creare dei luoghi che fossero safe non solo per me, ma anche per le persone che mi venivano a guardare. Quindi si può dire che il drag mi ha cambiato la vita, ma probabilmente mi ha salvata»

Daphne Bohémien Gay.it
Daphne Bohémien e l’arte drag

Qual è il cambiamento più grande che hai visto nella percezione del mondo drag? Anche a seguito di un fenomeno globale come Drag Race.

«Mi fa piacere che ci sia una rappresentazione maggiore del drag e anche una conoscenza maggiore. Quello che si rischia un po’ sempre è chiaramente farlo diventare qualcosa di mainstream. Ora, io sono una fiera sostenitrice dell’arte pop: l’arte pop è quella che oggettivamente cambia il pensiero di massa, perché è vero che nelle subculture si sviluppano davvero le rivoluzioni, ma poi, oggettivamente, per essere abbracciate da più persone queste cose devono diventare pop. Per il drag è sicuramente così, ora abbiamo più rappresentanti. Quello di cui abbiamo necessità, però, è di non fermarci a questo. Siamo nel 2022 e abbiamo la possibilità di chiedere di più. Spesso quando mi trovo a parlare di rappresentazione e di comunicazione mi si dice sempre “Vabbè dai, però tutto sommato almeno se n’è fatto qualcosa, se ne è parlato”. No, io sono stanca di accontentarmi, sono stanca di accontentarmi con persona trans*, sono stanca di accontentarmi come persona, sono stanca di accontentarmi come performer drag, sono stanca che mi vengono date le briciole. E a quel punto mi dico Drag Race è importante? Certo, come è importante Dracula, ma è anche importante parlare di linguaggio, staccarci dal concetto di Drag Queen e Drag King, come è importante avere un occhio di riguardo anche per tutte quelle persone la cui arte drag non si riesce in qualche modo a incasellare, perché non ne abbiamo gli strumenti a livello mediatico, perché non ci sono stati dati. Quello che dobbiamo fare però è pretendere sempre di più, perché quello che abbiamo non è abbastanza e personalmente non mi basta il fatto di avere Drag Race Italia, per quanto possa essere importante, secondo me si è fatto un lavoro che poteva essere fatto meglio ed è bello che sia stato fatto. Ma poteva essere fatto meglio? Si. Abbiamo il diritto di pretendere che venga fatto meglio? Sì. E io non voglio stare zitta»

Come è arrivata poi la decisione di fare “coming out” pubblicamente?

«Ho fatto coming out come persona Hiv+ dopo due anni dalla diagnosi. L’ho fatto perché fondamentalmente pensavo che non se ne parlasse abbastanza, la realtà è che non se ne parlava affatto. E io l’ho fatto anche un po’ spaventata perché avevo paura del giudizio delle persone, questa è una grande verità. In realtà la mia community mi ha accolta e mi ha ascoltata. E da lì si è instaurato un meccanismo incredibile perché le persone hanno visto che mi ero aperta con loro, mi ero confidata, ho raccontato qualcosa di cui di solito si ha paura a parlare e loro con me hanno fatto altrettanto. Ho ricevuto un sacco di messaggi che mi dicevano “Guarda, anche io sono Hiv+, non l’ho mai detto a nessuno” oppure “L’ho detto a mia madre, non mi abbraccia più ed allora io non riesco più a fare coming out”. Sono stati messaggi molto importanti, molto forti e che hanno dato inizio al mio percorso all’interno del femminismo e del transfemminismo intersezionale smettessi. Mi ha fatto capire che se non accettavo quel tipo di discriminazione, la sierofobia, allora non potevo accettare nessun tipo di discriminazione e quindi sicuramente ho fatto un lungo percorso che sto vivendo ancora con molta felicità, molta consapevolezza e molta fatica all’interno di quello che era un mondo che non conoscevo e ignoravo e che mi ha permesso di capire che fino a quel momento ero stata una persona di merda. E lì, secondo me si capiscono tante cose, quando ad un certo punto metti degli occhiali e finalmente riesci a vedere le cose per come sono davvero. Però con quegli stessi occhiali ti devi guardare allo specchio. Devi dire “Cosa ho fatto fino adesso e cosa voglio fare, cosa posso cambiare?”. È sicuramente un discorso molto complesso che mi ha arricchita tanto»

 

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La diagnosi di sieropositività ti ha spaventata inizialmente?

«Il momento della diagnosi per me è sempre molto buffo perché sono andata a fare dei controlli, cosa che facevo in maniera molto regolare. E a un certo punto, la diagnosi è quella di positività all’Hiv insieme anche ad altre infezioni come la sifilide. E io ho guardato il dottore e gli ho detto “Mamma mia, ma ho vinto anche un set di pentole?”. Il dottore si è arrabbiato molto perché pensava che io non stessi prendendo la cosa seriamente. In realtà il suo arrabbiarsi l’ho vissuto in maniera molto violenta perché come decido di reagire io a un fatto che avviene nella mia vita è puramente una scelta personale. E io in genere sono una persona che tende a sdrammatizzare tutto e tende anche quasi a ridicolizzare molto spesso le vicende perché mi piace ridere e far ridere. Certo, poi quello magari non era il contesto più adeguato, però, era il mio modo di reagire a una cosa che mi stava sorprendendo in quel momento. Non ho mai avuto paura del virus. Questo cosa significa? Che nel momento in cui mi è stata data questa notizia, ho detto “Ok, va bene, so esattamente cosa fare, so come comportarmi” e mi preoccupava quasi di più, il giudizio delle persone attorno a me, come l’avrebbero presa loro e quanto si sarebbero preoccupate nei miei confronti. In realtà io l’ho vissuta con molta consapevolezza. La cosa che mi ha fatta pensare di più è che nel momento in cui mi sono interfacciata con la persona con cui sicuramente c’è stato questo scambio che ha segnato un po’ la mia vita, l’altra persona mi ha detto “No, io assolutamente niente”. Quindi ecco, ogni volta che faccio divulgazione, ogni volta che parlo di Hiv, ogni volta che sono a un evento o faccio un’intervista, io spero sempre che qualcosa a questa persona arrivi. E non in maniera cattiva, ma spero solo che lui abbia la possibilità di vedere quante cose belle sono riuscita a fare dopo quello che è successo. Le interviste, le cose a cui prendo parte, c’è anche meraviglioso documentario. Si tratta di qualcosa che mi accorgo che spesso distrugge le vite delle persone. Io mi rendo conto invece di quanto abbia dato a me, ma non perché prendo una pastiglia al giorno e vado a fare i controlli ogni tot, ma perché mi ha reso una persona più consapevole, migliore, che adesso si prende cura di sé e anche delle persone che le stanno intorno»

 

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A che punto è la comunicazione in Italia sul tema Hiv?

«Trovo che in Italia non si voglia parlare di Hiv. Fondamentalmente come non si vuole parlare di salute mentale o di persone con disabilità, perché tutto quello che ha a che fare con la sanità ci spaventa, non lo si vuole trattare, lo si vuole tenere un po’ in disparte e mettere sotto il tappeto. Quindi sono felice del lavoro che stiamo facendo nelle piazze e con i social, perché stiamo creando noi quella comunicazione, quell’informazione e quella divulgazione che non viene fatta da chi se ne dovrebbe occupare. Sono davvero molto grata alle persone che si occupano di divulgazione per quanto riguarda la Prep, per quanto riguarda le malattie sessualmente trasmissibili – non sono l’unica che lo fa e detto onestamente non lo faccio neanche in maniera egregia. Ecco, ci sono delle persone che invece lo fanno in maniera più specifica e costante mentre io racconto solo la mia storia e quello che avviene all’interno della mia vita. Trovo che ci siano un sacco di gruppi a cui noi dobbiamo dire eternamente grazie perché quello che ho notato, purtroppo, soprattutto nelle nuove generazioni e soprattutto nelle persone eterosessuali, è che c’è poca consapevolezza. Quando passi, come comunità, tutta la vita a essere stigmatizzata anche per le infezioni sessualmente trasmissibili, vuoi o non vuoi ti fai una cultura, vuoi o non vuoi hai un background che ti aiuta a capire cosa fare, cosa non fare e come farlo. Invece mi rendo conto che spesso le persone eterosessuali vivono veramente in un mondo quasi che è parallelo in cui l’unico problema che si ha è sempre e soltanto quello della gravidanza. Secondo me il lavoro che si sta facendo con i social e con Internet è una cosa meravigliosa perché stiamo rendendo un non luogo un luogo vero che crea delle connessioni e crea delle piazze virtuali che permettono di avere accesso alle informazioni, ma anche di poter creare una community di persone che vivono la stessa condizione, e quindi di poter avere degli scambi. Qui credo si stia facendo un buon lavoro. Il problema, come al solito, è lo Stato»

Credi che questa mancanza di comunicazione e informazione sia anche alla base dello stigma che c’è ancora attorno all’Hiv? Nonostante dagli anni Ottanta e Novanta le risorse per capirlo sono aumentate esponenzialmente…

«Credo fortemente che il problema che abbiamo con lo stigma rispetto alle Hiv sia il collegamento che si fa spesso tra infezioni sessualmente trasmissibili e la comunità LGBTQIA+. È più comodo fare quel tipo di comunicazione lì, sarebbe tanto meglio ad un certo punto, arrivati al 2022, dire “Sapete cosa c’è? Abbiamo fatto una cazzata. Beh, scusateci, scusateci davvero, scusateci, abbiamo fatto una cazzata. Potevamo fare diversamente? Non l’abbiamo fatto e avremmo potuto chiedervi scusa infinite volte ma non l’abbiamo mai fatto”. E quindi quello che mi vien da pensare è sempre che è più facile dare la colpa di queste brutte cose che succedono all’altro, al diverso, a qualcosa che è lontano da noi. No? Agli immigrati, alle persone della comunità, al problema che arriva da fuori l’Italia, la serie di cose per cui ci è più facile collegare gli stupri e le rapine alle persone non italiane. È più facile collegare tutta quella perversione sessuale alle persone non etero. La pedofilia, tutta quella serie di cose per cui è difficile ammettere che lo sporco ce l’abbiamo anche in casa e che il mostro non sempre è lo sconosciuto ma che molto spesso bisognerebbe guardare lo zio, il papà, il padre di famiglia, quello che ce l’ha la famiglia tradizionale, quello che poi vota Meloni. Questo è il problema della comunicazione. Questo è il problema dello stigma. La comunicazione è veicolata, ben filtrata e c’è tanta censura per cui noi viviamo di quello che ci viene dato, purtroppo cresciamo e siamo immersi nella nostra cultura e la nostra cultura, ahimè, è sessista e omofoba e molesta e transfobica e grassofobica e abilista e razzista, per cui le informazioni che abbiamo sono filtrate da questo. Sai, trovo che non si possa scindere il personale come atto politico. Per questo secondo me le nostre storie quando si può devono essere raccontate. Per questo il coming out, oltre che un infinito atto di fiducia nei confronti di chi lo riceve, è un atto politico. È chiaro che quello che viviamo è filtrato dalla nostra società ed è una società che non ci vuole, non ci vuole malate, non ci vuole vecchie, non ci vuole grasse, non ci vuole trans*. Non ci vuole»

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Daphne Bohémien

Qual è la risposta?

«La mia risposta a una società che non ci vuole è quella di non avere paura, di arrabbiarsi perché è un nostro diritto, perché non essere arrabbiate è un grande privilegio che non abbiamo. La risposta è quella di continuare a fare rumore e di continuare a fare rete perché trovo che sia necessario e fondamentale continuare a fare noi divulgazione e parlare e validare tutti i nostri sentimenti, tutti, anche quelli che un po’ ci fanno paura, per capirli e capire il mondo che ci sta intorno. Trovo che quando possibile e se ce lo sentiamo, allora possiamo un po’ alzare la voce. Possiamo scendere in piazza, possiamo fare quello che non vogliono che facciamo. Io un po’ per natura, un po’ anche per il discorso politico, sono extra, non abbasso la voce, mi arrabbio tanto, mi vesto come voglio, sono esattamente la persona che voglio essere e questa cosa spesso viene vista male. Viene criticata, additata, giudicata. Io sono libera e mi piace tantissimo essere libera. Sono quel tipo lì, sono la transfemminista arrabbiata che forse nelle cene di famiglia è meglio non invitare. Ma io sto tanto meglio così. Quindi il mio consiglio è di ascoltarsi tanto e capire, perché è giusto avere paura. E non perché sia giusto che ci mettano paura, ma perché dobbiamo ascoltare anche quel sentimento e capire come gestirlo. Per sopravvivere ad una società che non ci vuole bisogna cercare di essere il più possibile autentiche, riuscire a guardarsi allo specchio anche solo per 10 minuti da soli e vederci davvero che cosa vogliamo fare con tutto quello che abbiamo dentro, capire come farlo uscire fuori, quando e come»

Un messaggio per le persone che non sanno come affrontare e gestire la diagnosi?

«A volte sapere di essere persone Hiv+ ci può spiazzare, però quello che possiamo fare sicuramente è informarci. A volte si va nel panico, a volte si ha paura, a volte si è arrabbiate, ma bisogna ascoltare i nostri sentimenti. Attivamente possiamo capire cosa stiamo vivendo e che cosa vivremo di lì in poi, e anche trovare delle persone, che non siano per forza nella nostra cerchia di amicizie o nella nostra famiglia, che ci riescano ad ascoltare, che abbiano un ascolto attivo e che si mettano in posizione d’ascolto realmente per non sentirsi sole. Quello che capita spesso, in generale, è che ci si senta infinitamente sole e questa cosa in realtà diventa problematica. Dobbiamo e dovete sapere che non siete persone sole. Ci sono tantissime persone là fuori che hanno la voglia di aiutarvi a capire, a confrontarvi e a volte sono vestite da circo come me, a volte sono anche delle persone più discrete che non urlano e non insultano i maschi cisgender. Però ce ne sono un sacco là fuori che vivono la vostra stessa condizione per cui, quando ne sentirete il bisogno, è giusto cercarle quelle persone. E vedrete che non sentendo più quella solitudine andrà un pochino meglio»

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