In caso ve lo siate perso, Hari Nef interpreterà Candy Darling. La vedremo in un film diretto da Zackary Drucker (anche autore dello splendido documentario Disclosure: disponibile su Netflix, se non l’avete visto mettetelo in watchlist)e sarà la perfetta occasione per scoprire due nomi ancora non abbastanza famigliari al grande pubblico: da una parte c’è una 31enne attrice e modella trans* americana, che potreste aver visto nella bella serie Transparent o nella molto meno bella serie The Idol, ma sicuramente in Barbie di Greta Gerwig.
Dall’altra c’è un’altra attrice e modella trans* americana che ha monopolizzato la subcultura degli anni ’70. Se vi fate un giro su Google la troverete come ‘musa di‘ affianco i nomi di uomini famosi: da Lou Reed che scrisse di lei in Walk on The Wild Side (‘Candy came from out on the Island/ in the back room she was everybody’s darling/ but she never lost her head/even when she was giving head/ she says, “Hey, babe. Take a walk on the wild side”) e Candy Says (“Candy says, “I’ve come to hate my body/ and all that it requires in this world”) . O attraverso lo sguardo di Andy Warhol che la rese superstar della sua Factory e volto ricorrente in più film da Flesh (1968) a Women in Revolt (1971) insieme a Paul Morrissey.
Prima di tutto questo era una bambina che passava i pomeriggi a guardare i grandi classici con sua madre Teresa, detta ‘Terry’, e ammirare le star del cinema: non solo le ammirava, ma le imitava, ne assorbiva i gesti, il portamento, l’allure. Attività caldamente sconsigliata per una bambina trans* nel Queens degli anni Cinquanta, ma Candy coltivò un’incredibile abilità alla speranza, tanto che quando nei primi anni ’60 iniziò la transizione stava pensando di chiamarsi Hope. Per un breve periodo optò anche per Candy Cane, ispirata da Sugar Kane ( il personaggio interpretato da Marilyn Monroe in ‘A Qualcuno Piace Caldo’). Poi la sua amica Taffy Litz mentre giravano per West Village continuava a ripeterle più volte ‘Come on, let’s go, Candy, darling!’ e presto fatto, il suo nome era lì.
Lasciò la scuola al terzo anno di superiori, si trasferì a New York, nel quartiere Baldwyn, e studiò presso la DeVern School of Cosmetology, prima di trovare lavoro nel salone di bellezza. Prima che che la stand up comedian trans Jackie Curtis scrisse uno spettacolo per lei intitolato Glamour, Glory, and Gold: The Life and Legend of Nola Noonan, Goddess and Star e salì per la prima volta sul palco nel 1967. Quando non recitava o posava per fotografi famosi, passava le serate con le altre ‘dolls’ presso i locali gay di West Village, spesso senza soldi o fissa dimora. Ospitata da amici o conoscenti, sfrattata da una camera d’albergo all’altra, ma considerata la ragazza più glamour dell’intero quartiere. Cynthia Carr nella biografia Candy Darling: Dreamer, Icon, Superstar racconta che quando sua madre Terry scoprì che girava nei bar gay di Baldwin in “abiti femminili”, Candy confermò quanto detto salendo in camera sua e riemergendo dalla stanza vestita da donna. Ogni volta che tornava a trovare la madre a Massapequa Park, annunciava alle amiche che avrebbe fatto un salto presso “la sua casa in campagna”. Una volta lì sua madre le ripeteva sempre: “Non tornare a casa finché non è buio. Non aprire la porta. Non farti vedere da nessuno”.
Oltre alla speranza, Candy trovò la fede attraverso i testi di Mary Baker Eddy, fondatrice del movimento religioso Scienza Cristiana. Credeva fermamente che la mente poteva avere controllo sul corpo e ogni malattia proveniva da un modo di pensare “che ha perso la retta via”. In un passaggio del libro Science and Health with Key to Scriptures, Eddy fa riferimento ai due generi, ma nella vecchia copia rinvenuta da Carr, Candy annotava con una penna d’inchiostro rosa: “Solo due? Penso che ne esistano più di due”.
Se la mente aveva controllo sul corpo, Candy non aveva controllo sul linfoma che le fu diagnosticato a 29 anni, in seguito alle iniezioni ormonali che all’epoca risultarono cancerogene. “Che ormoni prendevano le persone nei primi anni ’70? si chiede la biografa Carr sul Los Angeles Times “Quali sono stati tolti dal mercato? Ho letto libri sulla medicina trans*, parlato con più medici e setacciato l’internet, ma stiamo parlando di una medicina che è stata ritirata quasi 50 anni fa. Non sono mai riuscita a venirne a capo”.
Morì il 21 Marzo del 1974, ma prima di uscire di scena chiese un ultimo scatto da Peter Hujar: sul letto di ospedale, circondata da crisantemi rossi e neri, con addosso una splendida camicia da notte di marabou. Quello scatto nel 2005 diventò anche cover dell’album I am Bird Now di Antony and the Johnsons.
Per tutta la sua breve vita Candy non sì sentì parte di nessuna comunità, inclusa la sua: non partecipò mai a nessun Pride, rivolta, o maniffestazione. Nei suoi diari scriveva di ‘sentirsi come in prigione’. Nelle sue pagine di diario: “Ci sono cosi tante cose di cui forse non farò mai esperienza. Non posso andare a nuotare, non posso andare a trovare i parenti, non posso uscire senza truccarmi, non posso indossare alcuni capi d’abbigliamento, non posso avere un fidanzato, non posso trovare un lavoro. C’è tanto in questa che non posso avere”.
Nulla la risvegliava come il cinema e niente la deludeva come realizzare che la vita non rispecchiava mai quella dei film. Nel 2024, in un’epoca in cui ci sembra ancora un miracolo vedere un’attrice trans* sullo schermo, speriamo solo che il cinema la rispecchi come avrebbe voluto lei. Come dice Hari Nef, Candy Darling costruì un ponte tra i suoi sogni e una realtà che le remava contro, diventando inconsapevole modello per tutte le attrici trans* che sarebbero arrivate dopo: ‘Ha insegnato alle ragazze come me come sognare –forse persino come vivere”.
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