Nella tumultuosa Santiago di Pinochet, alla vigilia del colpo di stato, la Fata dell’Angolo fa bello il suo mondo intonando motivetti popolari e decorando la sua casa come fosse una torta ricoperta di glassa. È costretta a vivere ai margini: verso i confini della città, certo, ma anche alle periferie del dicibile, in quella zona interstiziale che separa ciò che è consentito da ciò che invece è torbido. La Fata ha scelto questo nome e ha ripudiato quello di nascita, che rimarca l’appartenenza a un genere sessuale a lei di fatto estraneo: si definisce travestito e passa le sue giornate sui tacchi alti, in vestaglia, a ricamare il broccato. I soldi li guadagna così: cucendo e infiorettando le tovaglie per le mogli dell’alta borghesia. Quando non canta o si imbelletta il viso, quando non lavora o non passeggia, e spesso anche mentre lavora e passeggia, mentre cuce, canta e si trucca, la Fata si dedica alacremente al gesto del desiderio. Lo fa con il corpo e con il sentimento, desidera una vita lontana dall’ombra, desidera un uomo. E un uomo, poi, arriva. Anzi direi che le precipita addosso, le scoperchia la casa. Carlos, bestiola di muscolo e seme, ventenne dei più ribelli, sognatore patriottico, liberatore del mondo, cavaliere infatutato. Si incontrano per caso, poi per caso si fanno vicini, più intimi. Lei si innamora, lui cerca in lei un rifugio per le sue riunioni clandestine. Lei vuole l’amore, lui una casa, un avamposto per i suoi ideali.
Ho paura, torero di Pedro Lemebel (in Italia edito da Marcos y Marcos), pubblicato per la prima volta nel 2001, subito tradotto in tutto il mondo e poi divenuto in patria «il libro più importante del millennio», è un autentico capolavoro. Un romanzo simbolo di lotta e di speranza, che unisce la dimensione intima a quella politica, anzi per meglio dire a quella collettiva. La storia della Fata, dei suoi incantamenti, si fonde alla cronaca della resistenza, al discorso sull’utopia e sul futuro della nazione. In questo gioco di mescolamenti, reso possibile da una lingua barocca e accurata, la voce della protagonista fa emergere un profilo complesso e sfaccettato, una figura ormai centrale – narrativamente e civicamente – nella letteratura universale. Un corpo queer che si rispecchia nel corpo del testo e che, insieme a esso, genera un corpus ulteriore e derivato che è tante cose tutte insieme: squillante, setoso e chiassoso, affollato, macilento, livido, sgangherato, poetico, militante, anarchico, prezioso, oscuro e luminoso, magmatico e multiforme.
Dall’11 gennaio per un mese intero, il Piccolo Teatro di Milano, nella sua sede di via Rovello, ospita l’adattamento drammatico del testo di Lemebel. Siamo andati a vederlo.
L’impressione che si ha una volta terminati gli applausi finali è che Ho paura, torero nella regia di Claudio Longhi, direttore del Piccolo dal 2020, sia una grande occasione sprecata. Forse, addirittura, un esperimento goffo che fatica a restituire la natura di un testo così eclettico. Andiamo, però, con ordine: la scena, che è un tripudio pop, un pastiche di citazioni che allontana dal mondo cileno in un maldestro tentativo di universalizzazione degli immaginari, è piuttosto affollata. Nei panni della Fata, Lino Guanciale. In quelli di Carlos, Francesco Centorame. A loro si aggiungono, poi, Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Mario Pirrello, Arianna Scommegna e Giulia Trivero. Tuttə attorə dalla fama collaudata e dal fitto curriculum vitae, che qui però non riescono a trovare una propria voce, che sia possibilmente anche credibile, per raccontare la storia deə personaggə che interpretano. Il risultato non era auspicabile: tuttə, dalla Fata a Pinochet e consorte, appaiono come ingabbiatə in una scrittura che lə rende caricaturali e monodimensionali. Chiaro è che anche Lemebel nel suo incedere polemico si appropria del dispositivo ironico per descrivere al meglio la controversa situazione cilena, ma qui l’umorismo è scarico, come fosse pensato per essere fine a sé stesso. È quasi cabarettistico e non trova il modo di accordarsi alle note più dolenti del testo né tenta di rendersene cassa di risonanza. La leggerezza, se gestita in questo modo, vien da sé, finisce per appiattire la narrazione e per eviscerare tutte le figure delle proprie contraddizioni. Perciò, anche se in modi differenti, ogni personaggə è in sé piuttosto macchiettisticə, perché incistitə intorno a un vocabolario minimo di gestualità ed emozioni, che depotenzia sia il riso sia il dramma e non emoziona mai, a fronte di un testo che, al contrario, causa di continuo sorrisi e commozioni.
Con queste premesse non è difficile immaginare come la pièce si sia imperniata intorno a una rappresentazione della comunità LGBTQIA+ assolutamente fallace e sbrigativa. Il personaggio della Fata è, in questo senso, paradigmatico: se nel romanzo si incontra una donna coquettish e disperata, variopinta e fosca, in balìa delle conseguenze di un sentimento complesso, che chiama in causa sia l’ardore sia la rabbia, sia la paura sia la pura gioia. A teatro, ci si imbatte nell’ombra di un’adulta mai davvero cresciuta, avvezza a smarginare e a tradirsi, una ragazzona goffa e scalcinata, ignorante e eccessiva, che abbandona l’introspezione e il coraggio per dare ascolto alle proprie ingenuità. Non che gli eccessi siano un problema in sé, sia chiaro. Lemebel, come si è detto, è costantemente eccessivo, e non solo in questo romanzo. I suoi eccessi, anche quelli linguistico-simbolici, sono però strumentali e sistemici, non solo estetici e apparenti. Non sono la conseguenza di una pigrizia di caratterizzazione, ma essi stessi meccanismi di descrizione. È proprio grazie agli eccessi, per esempio, che lo scrittore cileno riesce a evidenziare e denunciare le storture della politica abusante e i guasti della marginalizzazione.
Ho paura, torero a teatro diventa così uno spettacolo unicamente ridanciano: per moltə, a giudicare dai ghigni, spesso anche fastidiosamente sguaiati, davvero godibile. Facile constatare, infatti, che niente, ancora oggi, riesce a suscitare la risata come il turpiloquio e il pubblico ludibrio. E ciò, che mi sembrerebbe già abbastanza serio in sé, qui diviene addirittura grave, perché la smorfia ilare non cede mai il passo al suo contrario o, almeno, ai toni accorati da cui il romanzo è ugualmente attraversato. Un’occasione sprecata, si diceva, avere i teatri pieni (il merito è attribuibile alla fama di Guanciale e Centorame) e consegnare loro un testo monco.
Le foto sono di Masiar Pasquali
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