“Chiamami con il mio pronome”, perché i pronomi sono importanti per le persone LGBTIQA+?

La lotta contro la transfobia parte (anche) dal nostro linguaggio.

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pronomi comunuità lgbtqia+ chiamami con il mio pronome
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Nel giro di qualche anno, le persone hanno iniziato ad indicare nelle bio dei profili i propri pronomi: (she/her), (he/him), (they/them), o un’unione di questi.

Perché bisogna specificarlo? Non si capisce già? Beh, al massimo si intuisce, ma anche in quei casi non ne abbiamo davvero la certezza.

Da quando abbiamo iniziato a prestare più attenzione ai pronomi? No, non è una moda, e i neopronomi esistono da secoli.

Fino all’altro ieri la conversazione girava principalmente intorno il punto di vista cisgender (quindi persone chi si identificano con il genere assegnato alla nascita)  e fortemente binarie (niente al di fuori del binomio maschio o femmina), e nessunə si poneva il problema.

Ma da quando la comunità transgender ha iniziato a prendere sempre più spazio, parola, e voce nell’opinione pubblica, anche le esigenze sono variate: se in Italia ancora fatichiamo a comprenderne il perché (complice una legislazione che non tutela le persone trans*, al contrario non fa che amplificarne lo stigma) in molti altri paesi specificare i pronomi è diventata la norma in più contesti: dal corpo dell’email alle università, fino all’ambiente lavorativo.

In norvegese potrebbe esserci un pronome neutro

Specificare i pronomi crea sin da subito – anche fuori le pareti virtuali dei social media – un ambiente sicuro per qualunque soggettività:  è un segnale per una persona transgender e/o non binaria di trovarsi davanti un contesto sicuro che non dà per scontata l’identità di genere di nessunə.

Perché l’espressione di genere (ovvero, come una persona sceglie di presentarsi, attraverso look, gestualità, e aspetto in società: che può essere stereotipicamente femminile maschile, androgino, o incatalogabile sotto nessuno stereotipo binario) non “assomiglia” per forza all’identità di genere (come una persona si sente indipendentemente dal sesso assegnato alla nascita), bensì ognunə si esprime come sente o ritiene necessario (o possibile) per sé stessə.

"Chiamami con il mio pronome", perché i pronomi sono importanti per le persone LGBTIQA+? - chiamami con il mio pronome facebook - Gay.it

L’eterna domanda: e come faccio a non sbagliarmi? Affiancata da: e se mi sbaglio, mi cancellano? È nazismo travestito da politicamente corretto?

Stop, non facciamola così tragica. Per una parte della comunità è rispettoso chiedere il pronome, mentre per moltə altrə non è necessario: se siete in dubbio, fatelo.  Se non lo fate, e l’altra persona vi corregge, non andate in cortocircuito: chiedete scusa e prestate più attenzione dopo. Se lo fate, e vi dicono che non serviva, idem.

Sbagliare è comprensibile e le persone trans* non vengono da Marte: siamo tuttə cresciutə dentro lo stesso sistema etero-cisgender e stiamo tuttə cercando di smantellare gli stessi bias culturali.

C’è una bella differenza tra un genuino errore di linguaggio (con la volontà di prestare più attenzione successivamente), e un disinteresse che sottintende la volontà di sottodeterminare l’identità dell’altra persona (esempio più lampante sono i titoli di giornali che  riportano crimini di transfobia chiamando vittime e survivor con i pronomi assegnati alla nascita o i deadname).

Incontrerete anche varie persone queer che vi diranno non gliene può fregare di meno dei pronomi, e in tal caso va benissimo così: ognunə si autodetermina come preferisce, e quel che possiamo fare è rispettarlo, allenando l’ascolto e senza imporre nulla.

E con l’italiano come facciamo? La nostra lingua (spoiler!) per quanto bella è anche fortemente binaria e poco inclusiva: se con l’inglese abbiamo già delle parole neutre di default, in italiano la vocale finale ci costringe a declinarle inevitabilmente al maschile o al femminile. Ma ci sono alcuni escamotage: possiamo affidarci agli asterischi, le x, o tra le più gettonate, lo schwa.

schwa

Quest’ultimo non deve per forza piacerci, ma crea nel parlato lo stesso suono di alcuni dialetti italiani, tipo abruzzese o napoletano, dove l’ultima vocale rimane in qualche modo ‘non pronunciata’ (e così anche il genere della persona a cui ci stiamo rivolgendo). Per capirne di più: potete leggere anche la nostra intervista al linguista Antonio Orlandi.

Nonostante il disaccordo dell’Accademia della Crusca, lo schwa è stato approvato nei documenti ufficiali del Conservatorio di Bologna, dalla Rai per i sottotitoli dei Diversity Awards 2023, fino alle tesi di laurea o i romanzi. 

Non sono soluzioni definitive, ma dei segnali del cambiamento, che permettono a noi e al nostro linguaggio di restare dinamici e metterci in discussione.

Davanti un sistema che ci vuole ancora invisibili e privi di tutele, il linguaggio è ancora uno dei mezzi più potenti che abbiamo per riconoscerci e (ri)affermare chi siamo.

 

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