MuCEM sta per Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo ed è un avveniristico luogo d’esposizione inaugurato a giugno sul molo J4 del porto di Marsiglia. Progettato da Rudy Ricciotti, l’archistar francoalgerina che ha firmato quel gioiello postmoderno che è il Museo Cocteau di Mentone, il MuCEM è un gigantesco parallelepipedo realizzato con una speciale vetroresina, utilizzata per le centrali nucleari, avvolta in un reticolo traforato di cemento armato. È raggiungibile attraverso una stretta passatoia sospesa collegata all’imponente fortezza quattrocentesca di Saint-Jean che custodisce l’affascinante percorso botanico del Giardino delle Migrazioni e la cui torre del Roi René domina la zona portuale. Costato circa 167 milioni di euro per più di quattro anni di lavoro, il MuCEM ha una superficie espositiva di circa 40.000 metri quadrati ed è il fiore all’occhiello di una Marsiglia tirata a lucido nell’anno in cui è stata nominata Capitale Europea della Cultura e ha ospitato l’EuroPride.
Fino al 6 gennaio 2014 è possibile visitare l’insolita mostra Au bazar du genre – Féminin/Masculin en Méditerranée (“Al bazar del genere – Femminile/Maschile nel Mediterraneo”) che propone oggetti e immagini di varia provenienza a testimonianza dei cambiamenti negli ultimi cinquant’anni nelle relazioni fra uomini e donne ma anche su come si vive e si manifesta la propria sessualità nelle zone del Mediterraneo. L’allestimento è piuttosto originale e consta di una serie di celle esagonali lignee che formano una sorta di mega-alveare, all’interno del quale si dipanano, a dire il vero in maniera un po’ confusionaria (ma dopotutto è un “bazar”), le cinque sezioni in cui è divisa la mostra: Il mio ventre mi appartiene, In marcia verso l’uguaglianza, Vivere la propria differenza, Il mio principe arriverà…‘ e A ciascuno il suo genere.
A partire dalle rivendicazioni del movimento femminista per l’uguaglianza dei diritti (è possibile ammirare un ventaglio delle suffragettes risalente al 1914 con scritto “Io desidero votare”), si affronta in “Vivere la propria differenza” il percorso culturale delle minoranze lgbt attraverso alcuni video dei Gay Pride e di meeting queer, evidenziando soprattutto le difficoltà organizzative delle comunità gay a sud del Mediterraneo, quali Kifkif in Marocco, l’algerina Abu Nawas, la palestinese alQaws ed Helem in Libano. Così, il grande quadro camp del 1992 di Pierre et Gilles “Les Mariés”, raffigurante una sposa maschio in candido tulle con maritino in completo nero che le cinge la vita, sembra perdere la sua carica provocatoria per assumere una valenza quasi documentaristica e veicolare un messaggio di stretta attualità nella nazione che ha appena approvato i matrimoni gay. Tra i molti manifesti di varie associazioni lgbt di tutto il mondo cattura l’attenzione un’affiche del Centro Femminista Separatista romano del 1985 che presenta la stilizzata serie di vignette “Noi Lesbiche – 40 fumetti quasi tutti sul tema”. Ritroviamo poi alcune opere del fotografo Philippe Castetbon dal titolo “I Condannati. Nel mio Paese la mia sessualità è un crimine” che erano state esposte anche in Italia un paio di anni fa. Si tratta di scatti in apparenza ‘intrusivi’ di ragazzi omosessuali che si celano il volto con le mani, conosciuti dall’artista tramite siti d’incontri gay, a testimonianza della grande difficoltà, se non dell’impossibilità, di svelare il proprio orientamento sessuale in molti Paesi a sud del Mediterraneo.
In una curiosa cella lignea vuota e isolata dalle altre da alcune fasce di plastica trasparente verticale è possibile ascoltare insulti contro gay e lesbiche in tutte le lingue del mondo: il pubblico entra stupito, ascolta, si sente a disagio e si allontana velocemente. L’omofobia è potente e disturbante anche solo quando le si dà “voce” come in questa insolita installazione che testimonia efficacemente la dimensione internazionale del problema.
L’evoluzione del concetto di genere in un’indefinibilità molto contemporanea, sempre più fluttuante ed etimologicamente “gender”, è analizzata chiaramente nella sezione “A ciascuno il suo genere” in cui si evidenzia quanto il sesso sia biologico ma il genere culturale, e come sia possibile nelle comunità più evolute modificarlo, reinterpretarlo e “viverlo” più o meno liberamente alla ricerca di una propria identità specifica al di là dei condizionamenti sociali. Sono sorprendenti le fotografie di Alex Majoli che ritraggono la comunità albanese delle “vergini giurate”, donne balcaniche che vivono e sono riconosciute come uomini secondo il codice culturale locale, il Kanun, a patto che esse giurino davanti a un testimone di rimanere vergini per tutta la vita. Ecco l’autoritratto in chiave transgender di Michèle Sylvander, “La Fautive” (“La Colpevole”), che s’interroga sul concetto di apparenza e sui codici sessuali grazie a un petto villoso che sembra integrarsi perfettamente in un immagine femminile, quasi a dominare un tratto mascolino che sembra aver fatto assolutamente proprio. Fa infine tenerezza lo splendido ritratto in bianco e nero realizzato da Régine Mahaux di Thomas Beatie, il celebre transessuale FtoM incinto, a riprova di una radicale messa in discussione di un paradigma del concetto di genere, ossia la capacità gestatoria che non è più un dogma femminile. Il genere non serve più a distinguere gli individui, i maschi dalle femmine, per sottoporli poi alle leggi non scritte delle norme sessiste, ma è un concetto sempre più malleabile e indefinito in continua evoluzione, i cui limiti ontologici non sono più dettati dagli obblighi sociali ma dalla libertà del singolo individuo. Anche se il rischio è forse proprio il bazar, la confusione dei generi, l’indeterminezza identitaria che può portare a una sorta di intrinseca fragilità individuale. Su questo concetto dovrà interrogarsi la società (e l’arte) del prossimo futuro.
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