Negli anni Sessanta Lesley Gore era la regina della musica pop. A decadi di distanza, le sue canzoni rimangono incastonate prepotentemente nella mente del pubblico, tra citazioni cinematografiche e serate al karaoke. Ma Gore è stata molto più di un tormentone senza tempo. Ricordata come l’amabile ragazza della porta accanto che conquistava il cuore spezzato di ogni teenager, idolo di un’intera generazione ma anche un’attivista queer, simbolo di autodeterminazione e indipendenza.
All’anagrafe Lesley Sue Goldstein, nasce in una famiglia ebraica di Brooklyn nel 1946. Al terzo anno di liceo, l’insegnante di musica registra una sua demo mentre canta al pianoforte che contro ogni previsione arriva nelle mani di Quincy Jones. Il produttore prende Gore sotto la sua ala, eleggendola la nuova pupilla della Mercury Records (prima di diventare il primo vice redattore afroamericano nella storia dell’etichetta discografica). Nemmeno diciotto anni e nel 1963 Gore schizza in cima alle classifiche con “It’s My Party (And I’ll cry if I want to)” adorabile inno a farsi spezzare il cuore il giorno del proprio compleanno. Presto Lesley Gore diventa volto delle paturnie adolescenziali, punto di riferimento per mille ragazze in grado di ritrovarsi nei suoi testi spudoratamente onesti e liberamente emotivi senza paura di apparire melensi: è la Taylor Swift degli anni ’60 con cui cantare a squarciagola le proprie infatuazioni (“Sunshine and Lollipops“) o sferrare colpi dispettosi alla smorfiosa di turno (“Judy’s Turn to Cry“).
Nel 1964 cambia definitivamente le carte in tavola: ad infuocare le classifiche americane arriva “You Don’t Own Me” e Gore entra nella storia. La canzone offre una nuova versione di lei, più consapevole e liberamente emancipata: “And don’t tell me what to do, don’t tell me what to say, and please, when I go out with you don’t put me on display ’cause you don’t own me” canta Gore, appena in tempo per fare da colonna sonora al secondo movimento femminista e dimostrando di non essere una bambola da tenere in vetrina, ma anche molto altro. Perché nonostante nelle sue canzoni Lesley versava lacrime sul Johnny di turno, Gore nella vita privata era serenamente lesbica: in un periodo storico dove l’eternormativa era all’ordine del giorno, Gore preferì non fare coming out, tenendo la sua sessualità dietro i riflettori fino al 2004, quando fece coming out nel programma LGBTQIA+ In The Life: “Non sapevo di essere gay almeno fino ai miei vent’anni” ha raccontato Gore nel 2006 a Lesbian News “Ho sperimentato sia con i ragazzi che le ragazze e ho avuto modo di adorare entrambi i casi. Penso che la prima relazione seria che ho avuto è stata omosessuale, e questo mi ha fatto capire molte cose in più su me stessa” . Gore ritardò il suo coming out, ma fuori dal palco non nascondeva nulla: “Non c’era nulla di davvero privato” ha raccontato in un’intervista per AfterEllen “Chi mi conosceva, chi lavorava con me, lo sapeva eccome“.
All’apice del successo Gore cominciò a seguire il Sarah Lawrence College, passando buona parte dei suoi weekend a studiare. Fu lì che la popstar iniziò il suo percorso di attivismo politico, prima come sostenitrice della campagna presidenziale di Robert Kennedy e successivamente grazie all’incontro con Bella Azbug, leader del movimento femminista e punto di riferimento: “Mi ha insegnato che cosa è importante per le donne e come investire le mie energie per quanto riguarda le donne lesbiche, e cosa fare per aiutare le donne in questa comunità” dichiarò anni dopo. Lesley Gore morì il 2 Maggio del 1946 all’età di 68 anni. La compagna Loise Sasson, le rimase affianco per più di 33 anni. Il mondo canta ancora le sue canzoni, colonna sonora di chi è libero di fare tutto quello che vuole: un’ adolescente dal cuore spezzato, impertinente canaglia, attivista e intellettuale queer. Gore ha dimostrato di poter essere tutto questo, tenendo in mano la penna della sua storia e non appartenendo a nessuno.
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