Dire “io ho subito” significa affermare la propria soggettività: intervista a Michela Marzano – VIDEO

In libreria "Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa", storia di memoria, femminismo e #MeToo. Michela Marzano in conversazione con Gay.it

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michela marzano intervista video
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Da qualche settimana in libreria per Rizzoli, il nuovo romanzo di Michela Marzano, Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa, una storia che ha il grande pregio di essere calata nella contemporaneità, riuscendo al tempo stesso a parlare al passato e, possibilmente, al futuro. Si tratta di un romanzo femminista, che affronta i limiti, le potenzialità e le contraddizioni interne ai femminismi. In più, è anche un romanzo sulla memoria, un tema particolarmente caro alla scrittrice, che abbiamo intervistato di recente in diretta Instagram. In fondo a questa pagina si può fruire della registrazione video della chiacchierata con Michela Marzano. Di seguito una rielaborazione testuale dell’intervista.

A proposito di memoria, quanto è importante nel discorso femminista?

È molto importante, soprattutto perché la stiamo perdendo. Soprattutto in Italia, stanno venendo a meno secoli di battaglie e rivendicazioni. Per esempio, quelle sulla maternità. Qualche giorno fa Giorgia Meloni ha elogiato le donne che hanno almeno due figli, come se l’identità femminile dovesse per forza passare attraverso la maternità. Senza considerare, tra l’altro, che maternità è un termine più vasto di quello che crediamo, che ha che fare soprattutto con la cura e la cura non ha genere sessuale, non dovrebbe averlo. Anna, la protagonista del romanzo, prova a trasmettere alle proprie studentesse non soltanto la riflessione intorno al consenso, ma anche la memoria legata alle battaglie per la liberazione sessuale e al #MeToo. Memoria significa trasmissione, reincarnazione delle battaglie, ma anche esempio: non possiamo incarnare la memoria di una battaglia se non abbiamo fatto nostra quella stessa battaglia. Stiamo perdendo la memoria, dovremmo fare un lavoro archeologico.

Un lavoro archeologico che porta Anna verso la consapevolezza di essere stata vittima. Vittima è una parola scivolosa, mi sembra. Nel dibattito femminista, da un lato viene rivendicata la necessità di dichiararsi vittime e dall’altra – penso a Virginie Despentes o a Valerie Solanas – la parola vittima viene allontanata, perché si crede che reiteri dinamiche di tipo patriarcale. Come ti poni nei confronti di questa disputa?

Tutto dipende da chi pronuncia la parola. Dire: «Io sono stata vittima, io ho ceduto, io ho subito», significa dare spazio alla propria soggettività. Dirsi vittima, tra l’altro, è un lavoro di attraversamento del proprio vissuto che implica un enorme dose di coraggio, perché significa riconoscere che c’è stato un momento in cui qualcuno ci ha cancellate. Diverso, invece, è quando qualcun altro ci designa come vittime, perché così facendo vengono svuotate le nostre testimonianze, ci viene tolta la voce. Le femministe storiche ci hanno insegnato che il personale è pubblico, ma il personale diviene pubblico se io decido di raccontarlo, non può essere svelato da qualcun altro. È la stessa cosa che succede nella differenziazione tra outing e coming out: l’outing ci toglie la possibilità di abitare la nostra storia, dice per noi quello che vogliamo o non vogliamo.  Hai citato Despentes: lei sa di essere stata una vittima e le violenze subìte sono state il motore di ogni suo scritto. Al tempo stesso, rifiuta un tipo di femminismo classificatorio  – bianco e benpensante – che giudica le vittime e parla per loro.

Sempre Despentes scrive che la pornografia e il sex work sono dispositivi di liberazione femminile. Sei d’accordo? È possibile considerarli liberatori se, ancora oggi, sono regolati da buchi legislativi e da dinamiche misogine e discriminatorie nei confronti delle donne e dei corpi non conformi?

È un discorso complesso, anche Despentes ha cambiato idea a questo proposito. King Kong Theory, dopotutto, è del 2006: certe cose sono cambiate, certi dibattiti sono diversi. Le ultimissime parole di Despentes dicono come la virilità tossica è così tanto permanente, così tanto presente, che di fatto costringe la donna, anche all’interno di questi dispositivi, a subire le decisioni di altri. Mi ha molto innervosito quando Rocco Siffredi, a proposito degli stupri di Palermo, ha detto: «Serve educazione sessuale, blocchiamo tutti i siti pornografici». Proprio lui che è stato il paladino di una determinata idea di virilità. Nel film Romance di Catherine Breillat, che non è neanche un film porno, Rocco Siffredi, che interpreta il protagonista, dice a un certo punto: «Troia, ti ho scopata!», una battuta che è intrisa di cultura dello stupro. C’è molto sfruttamento nel mondo della pornografia e nel mondo del sex work. Ci sono donne che decidono volontariamente di intraprendere questa strada e poi se ne tirano indietro perché non riescono a gestire quel tipo di retorica. Non si può prescindere dalle condizioni socio-culturali in cui siamo calati, altrimenti ovunque riproduciamo certi modelli, finendo addirittura per legittimarli e licenziarli come femministi.

Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa - Michela Marzano - Libro - Rizzoli - Scala italiani | IBS

A proposito del #MeToo che, nel tuo romanzo, è un po’ il motore degli eventi, Jia Tolentino sul New Yorker scrive che il movimento ha avuto tristemente degli effetti indesiderati. Ha dato voce alle donne, le ha esposte, ma non ha diminuito la misoginia, anzi l’ha aumentata. Sei d’accordo?

Sì, il #MeToo in un certo senso è tornato indietro come un boomerang, ma per fortuna che c’è stato. È stata la prima possibilità che molte donne hanno avuto di raccontare la propria storia, incanalandola in un discorso più generale. Hanno potuto appoggiare il proprio vissuto a quello di altre. Non è un caso che l’hashtag fosse #MeToo, vale a dire #AncheIo. Questo ha rafforzato la parole di tante giovani donne che per tanto tempo non avevano potuto parlare.  La parola, quando si libera, non serve a nulla se non si libera l’ascolto, se le parole non vengono accolte. Se non si libera l’ascolto, allora le parole tornano indietro. Le donne coinvolte nel #MeToo sono stare rimproverate, è stato detto loro come avrebbero dovuto comportarsi. È un tentativo di reponsabilizzazione della vittima, è vittimizzazione secondaria. Questo ha dimostrato anche come la cultura dello stupro è ben salda anche nelle donne, in alcune donne che sono cresciute con l’idea di doversi sottomettere. Il #MeToo si è risolto con un nulla di fatto, ma si è seminato e i semi, prima o poi, danno frutti. Si vede, per esempio, che le mie studentesse oggi sono venute dopo, che sono cresciute sapendo che certe cose sono inaccettabili e che di certe cose si può e si deve parlare. È un atteggiamento diverso dalle studentesse delle generazioni precedenti, diverso anche dal mio atteggiamento a quella età. A sei anni di distanza sono profondamente convinta che il #MeToo abbia seminato molte cose positive. Sarà importantissimo per le generazioni future.

Michela Marzano Intervista video diretta Gay.it Instagram
Michela Marzano

Tu abiti tra l’Italia e la Francia, due paesi in cui il #MeToo ha avuto inizi e svolgimenti differenti. Persino i due hashtag di riferimento sono diversi: #MeToo in Italia, #BalanceTonPorc in Francia. In Francia ha avuto effetti più violenti?

In Francia è tutto più forte, più violento. Con #BalanceTonPorc si designa il colpevole, con #MeToo si mette l’accento sulla soggettività di chi parla. Io credo sia meglio #MeToo: non dobbiamo mettere alla berlina i colpevoli, dobbiamo cambiare le mentalità, e per farlo dobbiamo avere maggiore consapevolezza del nostro stesso valore. L’altra differenza è che in Francia non abbiamo al potere una destra estrema con prese di posizione in cui si ha la sensazione di tornare a prima ancora della modifica della norma del 1996 in base alla quale lo stupro è diventato un crimine contro la persona e non contro la morale. Qui ancora designiamo le donne come responsabili delle violenze subìte, ancora non abbiamo l’educazione alla sessualità nelle scuole. In Francia, nelle università ci sono manifesti a caratteri cubitali con scritto: «Cedere non è consentire». In Italia si griderebbe a qualcosa che minaccia la sacralizzazione della famiglia.

Si parla spesso di sorellanza: come hai gestito i rapporti tra donne nel tuo libro?

Era tantissimo che volevo affrontare il tema della sessualità e del consenso, ma mi mancava una voce, mi mancava una storia. Anna a un certo punto è venuta a bussare alla mia porta, ma non mi bastava la sua voce, avevo bisogno di una molteplicità di storie. Volevo che la prima persona singolare diventasse una prima persona plurale. Così, c’è la madre di Anna, c’è Carlotta, c’è Alissa e ci sono tutte le altre. Volevo raccontare il punto di intersezione tra queste storie diverse e comuni. A me il termine sorellanza non piace troppo, viene usato come clava, chi parla di sorellanza spesso esclude le donne. Preferisco la parola rete. Però è un bel tentativo, che si oppone al termine fratellanza. Spinge a mettere insieme le voci. Ho proceduto tenendo insieme la storia di Anna a quella di tutti gli altri personaggi e dall’altro lato con il controcanto dei suoi studenti. Questo per cercare di arrivare dal singolare all’universale, senza che l’universale cancellasse però la soggettività. Non è stato facile gestire l’equilibrio delle varie voci. Poi ho introdotto un punto di vista più oggettivo, quello dell’inchiesta giornalistica rispetto alla storia di Harvey Weinstein, di Lisa Blum, di Ghislaine Maxwell, una donna che utilizza il proprio essere donna per dare in pasto a Epstein una schiera di ragazze: una servitù volontaria alla dominazione maschile.

Ci consigli qualche altra lettura sul tema?

Ce ne sarebbero tantissime, ma consiglierei  Il consenso, il memoir di Vanessa Spingora (La Nave di Teseo): la storia raccontata è il contraltare a quella di Lolita. Lolita è un capolavoro: racconta cosa succede nella mente di un uomo che si ossessione di una ninfetta. Springora, invece, dà voce alla ninfetta che non vuole essere ninfetta e racconta la sua relazione con lo scrittore Gabriel Matzneff, un pedofilo.

Dire "io ho subito" significa affermare la propria soggettività: intervista a Michela Marzano - VIDEO - Matteo B Bianchi 20 - Gay.it

A proposito di parità, a che punto siamo?

Siamo ancora al Carissimo Amico, come si dice a Roma. Siamo punto e a capo, ogni volta dobbiamo ricominciare. Ora ci troviamo in una situazione politica particolarmente complicata, stiamo tornando indietro su tante cose: su un determinato modello di famiglia, sui diritti, sullo statuto della donna, sulla non comprensione di quello che c’è dietro le molestie. Stiamo all’inizio di una lettera che dobbiamo scrivere per intero. E dobbiamo scriverla tutta, tutte e tuttə per sradicare la cultura dello stupro.

 

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