La prima volta che sono entrato in un locale gay non ci ho capito niente.
L’entusiasmo andava a braccetto con la confusione, e una vocina mi bisbigliava nell’orecchio: cosa ci fai qui? Perché creare divisioni? Non dovremmo avere locali per chiunque?
Io ero cresciuto nei locali per chiunque, quelli che non richiedevano un’etichetta d’accompagnamento, perché nella mia testa c’erano solo quelli al mondo.
Ho cominciato a frequentare i locali queer quando mi sono stufato di sentirmi l’eccezione. Non volevo più ascoltare tremila volte solo gli Articoli 31 ma ballare (altre tremila volte) una canzone di Kylie Minogue. Volevo fare la gallina, piegare il polso quanto pareva a me (i gay maschi alfa non sono inclusi in questa conversazione) e flirtare senza preoccuparmi di chi avrebbe guardato. Volevo essere me stesso senza attirare l’attenzione.
L’accusa principale per chi frequenta locali queer è di ghettizzarsi, confinarsi in un recinto, fare la nicchia diventando la causa della nostra regressione perché siamo noi primi ad isolarci dagli altri.
Ma gli altri chi? E rispetto a cosa? Mi ero così abituato a pensare l’eterosessualità come la norma da considerarla universale e non accorgermi che negli altri locali ammettevano chiunque a patto che si fosse adattatə alle aspettative, senza destabilizzare l’equilibrio di una realtà immutabile.
In particolare mi sarei accorto che nei locali per tutti non tuttə possono sentirsi al sicuro, e quelli che chiamano ‘ghetti’ altro non sono altro che luoghi di resistenza. Luoghi dove fingere, anche solo per qualche ora, che la nostra vita non sia un problema per nessuno.
Ma la strage del 19 Novembre al Club Q di North Acamedy Boulevard in Colorado, così come quella di Orlando il 12 Giugno 2016, sono un brutale remainder che per alcuni non possiamo farlo nemmeno a casa nostra.
Che succede quando neanche i safe space non sono posti sicuri?
Il genuino e assoluto diritto a sentirsi protettə si scontra con una realtà che rende anche il nostro divertimento, la voglia di fare lə stupidə e limonare in mezzo alla pista da ballo, un atto politico.
“Out of the bars and into the streets!” cantavano durante i moti di Stonewall, che come scrive il giornalista e attivista Dan Savage era “un movimento iniziato con un attacco ad un gruppo di persone queer, uomini gay, drag queen, donne trans, lesbiche butch, mentre erano sé stesse a porte chiuse”.
È proprio per questo che i club queer sono fondamentali: ci illudono e fortificano. Combattiamo rovesciandoci il cocktail addosso, ballando la stessa canzone del sabato precedente, continuando a fare le galline, il nostro dolore riceve una scarica di energia.
Ci ricordiamo chi siamo quando smettiamo di avere paura, e non vediamo l’ora di rifarlo di nuovo.
Fin quando non saremo al sicuro ovunque.