Ultime battute per il concorso internazionale di ‘Da Sodoma a Hollywood’.
La Francia continua a deludere con uno dei peggiori film del concorso, ‘Défense d’aimer‘ (Proibito amare) di Rodolphe Marconi, pretenziosa e inconsistente autocontemplazione del giovane Bruce (lo stesso regista) arrivato a Roma per un soggiorno a Villa Medici dove si innamora di uno stagista bisex. Si mette a spiarlo mentre si porta a letto le donne, non accetta il rifiuto, conosce una sua amante che è infatuata di un serial killer e in un finale telefonato lo uccide. La capitale è quanto mai cartolinesca e da clichè, lo snobismo e l’inutilità dell’operazione davvero fastidiose. Più che a un Teddy Award potrebbe ambire al Tedio Award.
Un po’ meglio il tedesco ‘Ein Leben lang kurze Hosen tragen‘ (‘Il bambino che non sono mai stato’) di Kai S. Pieck, ricostruzione di quattro omicidi compiuti tra il 1962 e il 1966 da un quindicenne, Jürgen Bartsch, che confessa i suoi crimini davanti a una telecamera in bianco e nero (come in ‘Butterfly Kiss’) dopo l’arresto avvenuto quando era diciannovenne. Ripercorre così la sua infanzia infelice: la disturbante scoperta di essere stato adottato, l’incapacità di comunicare affetto dei nuovi genitori, gli anni in una scuola religiosa dove viene molestato da un prete, la scoperta dell’omosessualità e l’attrazione morbosa per il corpo maschile. Più che il tema affrontato è interessante lo stile del film: fotografia desaturata che esalta i toni bruni, ambienti claustrofobici (la casa, il collegio, una grotta), regia controllata che tende a rinchiudere i personaggi in luoghi e situazioni opprimenti.
Di tutt’altro genere è la commedia leggera ‘Goldfish memory‘ dell’irlandese Liz Gill, una spensierata ronde sentimentale di personaggi gay, bisex, etero in una luminosa Dublino virata in ocra pallido e irrorata di canali a tal punto da sembrare Amsterdam. Un professore non più giovane passa il tempo a sedurre studentesse ma due di loro si metteranno insieme; un ragazzo fidanzato con una donna scopre di essere attratto da un giovane che vive su una chiatta; una giornalista televisiva si innamora di una donna, si scopre incinta e decide di tenere il bimbo e allevarlo con la compagna. Una delle protagoniste ripete all’inizio e alla fine: «La memoria dei pesci rossi dura solo tre secondi: quando due si incontrano in una boccia è come se fosse la prima volta». Il tono scoppiettante e ritmato la rende gradevole e divertente, forse solo un po’ vacua. Verrà distribuita prossimamente da Lastrada.
Musica e voglia di sdrammatizzare anche nell’elaborato corto spagnolo ‘Colours‘ di Carlos Dueñas e Biel con Antonia San Juan (il trans Agrado di ‘Tutto su mia madre’) presente in sala con nuovo look dal capello lungo e liscio. «E’ il mio primo ruolo di lesbica e non sarà certo l’ultimo» ha dichiarato l’attrice almodovariana. Un trentenne sieropositivo, David, cerca un equilibrio nella sua vita scandita dalle pillole colorate che deve prendere per curarsi cercando di mediare tra le preoccupazioni della vulcanica sorella Berta, l’amicizia della lesbica senza peli sulla lingua Esther e un giovane gay che si innamora di lui.
Istinto e natura sono invece le protagoniste dell’interessante ‘Proteus‘ di John Greyson (foto) e Jack Lewis, coproduzione canadese e sudafricana che ricostruisce un fatto vero partendo da documenti di un processo realmente avvenuto nel 1725. Uno schiavo nero dell’etnia Khoi, Claas Blank, viene condannato ai lavori forzati nella colonia penitenziaria di Robben Island, la stessa dove fu esiliato Nelson Mandela nel 1964. Viene inserito in un programma di recupero in un vivaio gestito da un botanico che studia nuove specie floreali ispirandosi agli studi di Carlo Linneo. Conosce un marinaio olandese biondo, noto per la sua omosessualità e denigrato per questo da tutti. Se ne innamora e inizia ad avere rapporti con lui di nascosto ma nel frattempo il botanico si invaghisce dello schiavo. Quando Claas viene sorpreso col marinaio, il processo lo condanna a morire annegato insieme a lui. John Greyson conferma la sua ossessione per il tema dei fiori (come in ‘Lilies’, un suo film precedente), qui simbolo di una natura selvaggia e incontrollabile, e azzecca una bella scena di sesso bestiale tra i protagonisti. E ad essere credibile è proprio l’idea di tratteggiare questa passione come antiromantica e dettata unicamente dalla forza dell’istinto, immersa com’è in un mondo di violenza fatto di crudeli punizioni corporali a suon di frustate. Greyson si diverte anche a inserire elementi cronologicamente discordanti come una radio, un enorme cilindro di cemento dove i protagonisti si nascondono per fare l’amore e, al processo, tre traduttrici dall’Afrikaans con tanto di macchine da scrivere (come in ‘Uncut’), capigliatura e occhiali anni ’50. Non certo filologico ma originale.
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