Siamo abituati a pensare all’Asia meridionale e a Bollywood come un luogo e un’industria dove la rappresentazione LGBTQ+ non ha ancora fatto passi da gigante. In un certo senso è così, anche se ci sono casi che fanno ben sperare e che sempre più spesso provano a cambiare la narrazione esistita finora. Uno di questi è quello di Shiva Raichandani, attorə, regista e danzatorə di origini indiane che ha trascorso l’infanzia tra Indonesia e India prima di spostarsi nel Regno Unito.
Shiva, che recentemente ha fatto coming out come gender-fluid e ha adottato i pronomi they/them, è stato anche il protagonista di un documentario Netflix, “Peach Paradise”, in cui ha esplorato con il pubblico il suo modo di intendere l’arte e il la sua identità di genere.
«Qualcuno una volta ha detto che ci sono tante identità di genere quanti sono gli umani, perché il tuo genere è solo il tuo. Ho trovato molto conforto in questo»
Crescendo la sua relazione con il genere è stata molto travagliata perché la sua famiglia era molto rigida e conservatrice e non c’era spazio per parlare di cose come l’identità di genere o l’orientamento sessuale. Per questo, il lavoro su sé stessə è iniziato quasi in età adulta: «Trovare il giusto equilibrio e vivere nella zona grigia di non essere una cosa o l’altra ha richiesto un po’ di tempo per sentirsi a proprio agio».
«Per me le etichette sono un’arma a doppio taglio. A volte possono incasellarti, altre volte aiutarti a trovare una comunità»
Ma qual è stato lo sbocco che ha permesso di esplorare la questione del genere? In una recente intervista ha raccontato come abbia trovato conforto in una danza della tradizione indiana chiamata Bharatanatyam, in cui la musica, il ritmo e le rime sono costruite sui principi formulati nel Natya Sastra di Bharata Muni, santo e musicologo venerato nella cultura indiana. Shiva ha spiegato come in questa danza «dovresti abitare tutti questi diversi personaggi attraverso diverse narrazioni. Potresti letteralmente essere il vento, una roccia, un animale, un essere umano, qualcosa di completamente inanimato, tutto nell’arco di una performance».
È stata questa possibilità di essere qualsiasi cosa a dare il via a un percorso introspettivo che l’ha portatə a riconoscere la fluidità del suə genere: «La fluidità offerta dalla danza ha davvero aiutato a informare la mia stessa fluidità e mi ha permesso di apprezzare la distesa che deriva dalla vita, al di fuori dei sistemi rigidi che abbiamo, non solo il sistema binario ma le pressioni che la società esercita su di noi».
La Bharatanatyam, infatti, ottiene il suo nome alla fine del XIX secolo, nell’ambito del cosiddetto Revival, un movimento che ha riportato in auge le danze e le tradizioni più antiche della cultura indiana. Le sue origini però sono molto più antiche e prettamente liturgiche, strette da forti legami alla religione e Società Teosofica. La sua storia è intessuta di leggende e mitologia e di credenze dove il corpo è solo la casa dell’anima, che può assumere qualsiasi forma e qualsiasi genere.
Ed è sempre il mondo della danza ad aver permesso a Shiva di trovare la sua comunità anche una volta lasciata la sua terra Natale. Giuntə nel Regno Unito, ha trovato un collettivo di cabaret drag panasiatico, The Bitten Peach, che l’ha accoltə e ha dato il via alla suə carriera.
«Quando si parla di cabaret drag nel mainstream, le storie spesso sono incentrate su corpi bianchi e narrazioni bianche. Non riusciamo ad apprezzare davvero i talenti di base che abbiamo nel Regno Unito, in particolare i talenti asiatici»
A differenza di molte storie del passato, Shiva ha deciso di non rinnegare le sue origini e la cultura dell’Asia meridionale che, dice, «è assolutamente incredibile. [Ci sono] persone come Asifa Lahore, la prima drag queen musulmana e trans donna del Regno Unito, o DJ Ritu, che è un’icona a sé stante e una delle prime pioniere della scena musicale queer dell’Asia meridionale nel Regno Unito».
Ancora una volta l’arte diventa il mezzo e il tramite con cui si può conoscere meglio sé stessə. Magari anche riscoprendo culture e tradizioni che spesso caratterizzano noi e il nostro passato: «Sento che molte delle nostre storie, in particolare le storie trans e non binarie, tendono a venire dalla tristezza, dalla morte, dalla violenza e dal trauma. Anche se tutto ciò è vero, c’è così tanto spazio per mostrare di più».
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