GAY PRIDE: E ADESSO SI CAMBI

Bella sfilata a Milano, partecipata quella a Grosseto. Ma ora basta: dobbiamo realizzare grandi feste con due, trecentomila persone. E ben fatte. Perché siamo felici di essere glbt.

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E così ce l’abbiamo fatta anche quest’anno. La fragilità del movimento gay italiano te la senti addosso ogni volta, quando ti accorgi che sei lì a sperare che la manifestazione dell’orgoglio gay non sia un insuccesso (salvo poi scoprire che le persone gay italiane ormai danno per acquisita, anzi dovuta, questa giornata meravigliosa).
Ma te ne rendi conto anche quando ragioni su cosa voglia dire la parola “successo” in Italia. Dieci o quindicimila persone, quante ne abbiamo viste quest’anno a Grosseto al Pride nazionale (la nostra definizione di “successo”), sono la partecipazione scontata d’un campus universitario americano. E, insomma, diciamolo: sono state anche la partecipazione di quest’anno a un Pride locale come quello di Milano.
Per essere stata fatta a Grosseto“, è il commento che ho sentito fare da tutti, “è stato davvero un successo“. Il commento è giusto, perché rende merito allo sforzo di chi non si è risparmiato per questo risultato, per niente scontato.
Ciò non toglie la prima parte della frase, quel “per essere stato fatto a Grosseto”, che conferma che la scelta della città è stata infelice. Non ho trovato un solo partecipante (grossetani esclusi) che l’abbia capita o approvata. Io credo che ci sia costata una fetta di partecipazione (oltre che di visibilità mediatica).
Tutto questo perché una serie di infantili veti incrociati fra gruppi gay toscani aveva reso impraticabili le sedi più logiche per chi veniva da fuori, come Firenze, Pisa o almeno Lucca.
Quando succedono cose come questa si capisce perché siamo ancora fermi al giubilo per diecimila persone: perché siamo fermi alla politica dell’asilo infantile. E quindi io mi arrabbio.
Sbaglio?
Bisogna decisamente girare pagina. Anche perché ormai i Pride l’hanno già girata da sé.
Quest’anno l’aspetto di “festa” ha infatti prevalso sull’aspetto di “manifestazione politica”. Sono finiti i Pride intesi come sfilate di persone glbt “incazzate” (e rissose) che sfilano gridando slogan e portando cartelli. I luoghi del far politica gay si sono spostati altrove (e più di un gruppo glbt non ha ancora capito, ahilui, dove); la manifestazione del Pride è tornata ad essere, com’era alle origini, una festa. La nostra festa. La “festa dell’orgoglio glbt”.
Questa è una cosa bellissima, e mi fa male vedere che certi/e militanti glbt non capiscano quanto ciò sia importante. Tutti, a questo mondo, fanno feste e sono contenti di vivere. Non vedo perché solo noi dobbiamo essere quelli sempre tristi ed incazzati.
Oltre tutto, il messaggio politico implicito di una festa pubblica glbt è esplosivo. Non a caso i partiti di destra e i cattolici, ogni anno, cercano di sabotarne lo svolgimento (come anche quest’anno, a Milano).
Bisogna proprio essere una persona muffosa con l’acidità di stomaco a mille, “incazzata” di professione, per non accorgersi dell’impatto politico di una massa di lesbiche e gay felici che sfila per la città in una nuvola di coriandoli per dire: “Oggi è la mia festa, perché io sono felice di essere quel che sono, sono fiero delle persone che amo, mi riconosco nella bellezza degli altri che sono come me… quindi non ho nulla da nascondere, anzi”.
Se come messaggio politico vi pare poco, me ne scuso: per me invece è la vita.
Non è possibile vivere sempre e solo col cervello, o peggio col sesso: nella vita esiste anche il cuore. E l’impatto emotivo d’un Pride riuscito e sentito (e quello di Milano quest’anno mi ha commosso), è enorme. Per un giorno non mi limito a “sapere” che io sono un granello di sabbia in una spiaggia molto più grande. Per un giorno la vedo, la spiaggia, guardando una distesa di teste che si perde a vista d’occhio. Tante persone gay, lesbiche, trans… tutte qui, tutte insieme, tutte felici. Siamo tanti!


***

Io non mi riconosco in nessuna delle due alternative che egemonizzano oggi il mondo gay: quella dei moderati, sedicenti “ragionevoli”, che ci promettono che grazie a loro otterremo “niente, però subito“, e quella dei “disobbedienti“, incazzati, che ci promettono “tutto, mai“.
La politica è l’arte del valutare i rapporti di forza, ma in funzione di un progetto da costruire, possibilmente ora. Perdere di vista uno di questi due aspetti porta ad essere impolitici, e soprattutto irrilevanti. Come troppo spesso siamo.
Soprattutto quando ci preoccupiamo più di sabotare le attività altrui che di costruire qualcosa noi stessi/e.
Basta così. Adessi si cambi.
Abbiamo fatto le nostre prove, abbiamo visto che il popolo glbt italiano risponde alle nostre chiamate. Perciò, basta d’ora in poi con la politica da asilo infantile, e basta coi mini o micro-Pride che fanno urlare al successo per diecimila misere persone.
Sì, misere. Diecimila persone le mette assieme una manifestazione bocciofila. Ora si deve puntare sulle grandi feste di massa.
Dobbiamo puntare a Pride da duecentomila, trecentomila, quattrocentomila persone.
Non do i numeri, do le partecipazioni ai Pride di altri Paesi europei di popolazione analoga a quella italiana. Se ci sono riusciti loro, non vedo perché noi no.
Se il Pride dev’essere una festa, allora dev’essere una festa ben organizzata, che richiami centinaia di migliaia di persone, che cambi la vita di chi ci partecipa, che cambi il punto di vista di chi l’osserva, che faccia capire ai politici che i problemi del mondo omosessuale non coinvolgono solo diecimila, trascurabili militonte, ma addirittura milioni di persone.
  • Occorre un comitato stabile che trasferisca esperienza di anno in anno, evitando che, come quest’anno a Grosseto, i generosi ma inesperti organizzatori si affidino per l’evento post-pride a individui disinteressati ad altro che non fosse il massimo lucro possibile (per sé, non per il Pride).
  • Occorre un coordinamento che permetta di presentare tanti carri, belli, spiritosi, che facciano “evento” e costringano la gente a stare a guardare dall’inizio alla fine i froci-felici-e-festeggianti.
  • Occorre che si crei quella gara a chi presenta il gruppo più bello e divertente, preparandosi mesi prima (come avviene all’estero), fornendo così una scusa alle persone glbt per stare assieme e lavorare assieme, in un contesto diverso da quello della discoteca e del “calarsi” assieme. O della dark…
  • Occorre insomma organizzare sì una festa, ma una festa tale che, a sentirla raccontare, chi non è venuto si penta. E venga la volta successiva.
    Perché più facciamo vedere quanti siamo, più contiamo nella società.
È tanto difficile? All’estero lo fanno.
Sarà per qualcosa di speciale nell’acqua che bevono… o forse anche a noi basta solo volerlo?
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di Giovanni Dall’Orto

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