Il Leone d’Oro è una Leonessa ma non ruggisce, miagola. Non graffia, semmai accarezza con unghie laccate Chanel. Il massimo riconoscimento del Festival di Venezia a Sofia Coppola per l’intimista e delicato "Somewhere" fa da un lato piacere perché premia una pellicola stuzzicante sull’illusorietà molto contemporanea della finta cultura del successo e della fama. Sì, la regia c’è, è molto calibrata e il film ti cresce dentro – anche perché ci si dimentica dei tempi morti – ha una splendida fotografia e un’intrigante colonna sonora dei Phoenix. Ma d’altro canto fa dire, paragonandolo agli ultimi Leoni d’Oro, che ha una marcia in meno come qualità complessiva e che i grandi festival internazionali sono ormai diventati cineclub ipertrofici composti da un’élite di milionari che si premiano fra di loro: il padre-padrone della giuria di Venezia 67, Quentin Tarantino, è stato compagno della Coppola e fu lanciato da Monte Hellman che ha vinto un Leone Speciale per l’insieme dell’opera. Quando Quentin si è presentato in conferenza stampa, davanti ai giornalisti che l’hanno fischiato, ha mimato da cafonaccio il gesto della masturbazione.
Il pur grande regista di "Pulp Fiction" e "Kill Bill" ha persino cambiato una regola cardine del gioco, cioè non assegnare più di un premio allo stesso film: così il thriller pseudo-politico "Essential Killing" di Skolimowski ha vinto sia il Premio Speciale che la Coppa Volpi come miglior attore, mentre il tarantiniano in salsa iberica "Balada triste de trompeta" di Alex De La Iglesia coi suoi pagliacci killer e poco felliniani si è aggiudicato regia e sceneggiatura. I cinefili incalliti si sono così infuriati per aver visto lasciare a mani vuote il pare entusiasmante "Post mortem" dell’ottimo cileno Larrain e la sorpresa cinese "Il fosso" del poco noto Wang Bing.
Un curioso trend ha attraversato un po’ voyeuristicamente la Mostra: il bacio con lingua lesbico, poco sentimentale e viziato da una certa pruderie finto-trasgressiva. Le due attrici premiate si sono entrambe prodigate in queste performances pepatelle, finalizzate a solleticare l’audience etero maschile: la Coppa Volpi greca, la graziosa Ariane Labed di "Attenberg" si ‘allena’ in acrobatiche slinguate con l’amichetta in previsione del primo rapporto sessuale mentre l’avvenente Mila Kounis, premio Mastroianni come miglior attrice emergente, in "Black Swan" si rumina una stordita Nathalie Portman che l’attrae sia professionalmente che, sotto sotto, a livello carnale.
Anche nello stonato "La solitudine dei numeri primi", vistoso tonfo nella carriera dell’interessante Saverio Costanzo, il rapporto tra la bulletta Viola (la promettente Aurora Ruffino) e la protagonista Alice (Arianna Nastro, quasi eterea) vira sull’attrazione fisica con tanto di bacio appassionato ignorando il rapporto di emulazione seduttiva che stava alla base del romanzo, tradito più volte, soprattutto nello spirito.
Anche le simmetrie interne della storia non vengono rispettate, a causa di un montaggio non cronologico pasticciato e un lieto fine tremendo: Costanzo e Giordano, che hanno lavorato insieme alla sceneggiatura, sembrano invece rimanere inesorabilmente separati e con velleità artistiche differenti come i protagonisti del best-seller Alice e Mattia. Peccato, perché i volti ci sono e funzionano (resta impresso soprattutto l’esordiente Luca Marinelli). Il personaggio gay Denis fa poco più di una comparsata in cui nemmeno si comprende l’attrazione per il compagno. Un clown minacciosamente inquietante è interpretato bene da Filippo Timi nella scena non banale della festa di compleanno.
Nel complesso, si è rivelata una Mostra poco queer, come ci conferma Ivan Stefanutti, presidente di giuria del Queer Lion: "Erano pochi i film a tematica glbt e molti lasciano il tempo che trovano. "Potiche" (di François Ozon, n.d.r.) è delizioso, queer nell’atmosfera ‘baraccona’ e camp nei dettagli ma abbiamo deciso di premiare "En el futuro" per la semplice credibilità di curiosi e freschi racconti documentaristici che in realtà sono fiction con attori. Un film sperimentale elegante, senza spigolosità né eccessi estetici, che restituisce un’immagine di serietà e solidità del rapporto omosessuale e non la solita fugacità da uomo cacciatore. Il film più queer era "Drei" di Tom Tykwer, con scene di sesso gay esplicite, ma non mi è piaciuto perché aveva un segno un po’ disturbante lontano dal mio gusto. Abbiamo apprezzato anche "La bella addormentata" della Breillat, molto erotico ma un po’ discontinuo, con un rapporto lesbo tra la protagonista e l’amica zingara. Comunque è stata un’esperienza bellissima e siamo stati in piena sintonia col gruppo del Queer Lion. In realtà il verdetto è stato raggiunto all’unanimità poiché il giurato Roberto Cuzzillo ha dovuto assentarsi per motivi personali e col nuovo membro (Marco Busato, n.d.r.) siamo arrivati alla decisione unanime”.
"L’organizzazione del Queer Lion è stata ineccepibile" ci conferma l’altro componente della giuria, il videomaker Daniele Sartori. "Ma nell’insieme il festival è stato poco queer come Cannes. "En el futuro" ci è sembrata l’opera più sincera e onesta nel raccontare in uno degli episodi una storia d’amore gay in maniera pulita, positiva. "Drei" era ben fatto e con soluzione visive interessanti ma eccessivamente provocatorio e di cattivo gusto, in particolare quando mostra l’operazione di asportazione di un testicolo. Ci è sembrato che il regista volesse giocare sulla questione bisex per far parlare di sé”.
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