Il grandissimo David Foster Wallace, definito dal New York Times "la mente migliore della sua generazione", diceva che nella vita vince chi serve meglio. Impariamo, gente, impariamo da Glenn Close, maggiordomo ligio al dovere, ai vertici della sua capacità interpretativa nell’innovativo "Albert Nobbs", originale dramma in costume diretto da Rodrigo Garcia ("Le cose che so di lei"), in uscita domani nelle sale italiane grazie a Videa-CDE.
Il film è basato su un racconto dell’autore ottocentesco irlandese George Moore ed è stato adattato dalla stessa Glenn Close insieme all’ungherese Gabriella Prekop nonché a un conterraneo di Moore, lo stimato John Banville, ex critico letterario dell’Irish Times e Premio Grinzane Biamonti con "Il mare".
Un progetto molto caro alla Close, "Albert Nobbs", portato a teatro già trent’anni fa nella pièce off-Broadway del tunisino Simone Benmussa, vincitore di un Obie Award: "Credo che Albert sia un grande personaggio. La storia, in tutta la sua disarmante semplicità, è molto potente dal punto di vista emotivo […] Gli impiegati all’epoca non dovevano guardare nessuno negli occhi, e questa è una regola che lo favoriva. Ho dovuto imparare un certo portamento e a muovermi indossando pantaloni un po’ troppo lunghi e scarpe troppo grandi, ma la difficoltà maggiore è stata modulare la voce e il mio accento. […] La storia è semplice, ma tocca temi importanti per chiunque e tutti portano il proprio bagaglio di vita e ne escono arricchiti".
La vita di Albert Nobbs si dipana nell’elegante Morrison’s Hotel di Dublino a fine Ottocento. Il fedele cameriere conosce un’imbianchina anche lei gay e ‘mascherata’ da uomo, Hubert Page (la bravissima Janet McTeer, di cui su vede un bel nudo parziale). Alle loro vicende si intersecano quelle della cameriera Helen (Mia Wasikowska, l’Alice di Tim Burton) e del suo amato Joe (il bellissimo Aaron Johnson di "Nowhere Boy").
"La storia è ambientata alla fine dell’800 a Dublino" spiega il regista, figlio del leggendario Gabriel Garcìa Marquez. "Una città in cui, all’epoca, la povertà costituiva una minaccia tangibile. Era possibile ritrovarsi in mezzo alla strada nel giro di poche settimane, dopo aver perso un lavoro".
"Ma al di là del contesto – continua il regista – i temi della storia sono attuali: come si fa ad essere se stessi? Essere costretti a nascondersi e dover compiacere gli altri per sopravvivere, è un tema che ha una risonanza universale".
Tre le candidature agli Oscar: oltre a Glenn Close e Janet McTeer, sono candidati anche Corneville, Johnson e Mungle per il sofisticato make-up: non c’è un solo muscolo circumorale di Albert Nobbs in cui si percepisca anche minimamente il sottile cesello dei tre responsabili del trucco.
A corollario del cast, i fan dell’androgino Jonathan Rhys-Meyers ("Velvet Goldmine") potranno apprezzarlo nel ruolo del Visconte Yarrell, viveur e compagnone; occhio anche all’ottima irlandese Brenda Fricker (è la cuoca Polly), Premio Oscar per "Il mio piede sinistro", ultimamente in ombra.
Notevole anche il lavoro della scenografa Patrizia Von Brandenstein ("La febbre del sabato sera"), impeccabile nel ricreare un’atmosfera più che semplici arredi, per un salto indietro nel tempo che non sa di vecchio e stantio.
Si dice che l’assassino non è mai il maggiordomo: in questo caso Glenn Close uccide, in un colpo solo, il pregiudizio cardine sul lesbismo inteso come caricatura della mascolinità; il luogo comune che un cameriere è un servo muto e sciocco; la convinzione che nell’800 le lesbiche non esistessero, fossero storpiature innaturali, errori educativi, mostri da ingabbiare: e quindi, non vivessero le loro storie d’amore come tutti gli altri.
Da vedere prima possibile.