Gianni Amelio è il nonno che tutti vorremmo. Paterno, dolce, rassicurante con la sua voce calma e ferma. Uno dei più grandi registi italiani che si è rivelato un abile direttore di festival, dopo il successo della sua ‘prima volta’ al TFF. Quando si racconta, quando ripercorre la sua carriera e mi svela la sua idea di cinema, sembra che il tempo si fermi, come quando da piccoli i nostri genitori o i nonni ci raccontavano le tenere fiabe che poi ci sono rimaste dentro. Eppure, sono passati tre quarti d’ora, memorabili, in cui a cuore aperto ha parlato senza remore persino del gossip che circolava maligno in questi giorni a Torino: non è che suo figlio adottivo, l’albanese Luan, è in realtà l’amante? Ma Gianni non si scompone, e ci sembra spiegare che la realtà a volte sì, è più cinematografica che sul grande schermo, ma l’importante è non specularci sopra.
Allora è nato un direttore di festival ma anche un attore… È vero che reciterai con Johnny Depp in un film di Kusturica?
Sì, non vedo l’ora. Durante la festa di chiusura all’Hotel Principi di Piemonte mi si avvicina Kusturica e mi dice: “Ti devo parlare”. Temevo che dovesse comunicare qualcosa di brutto. Invece mi ha proposto di recitare in un film su Pancho Villa che girerà in Messico nel 2011. Sarò un campagnolo che è una sorta di precettore, darò delle dritte a Johnny Depp, il protagonista.
Al Torino Film Festival il tema della paternità, spesso presente nei tuoi film, era trattato in chiave gay in due drammi a loro modo speculari: "Le refuge" di Ozon e "Chi l’ha visto" di Claudia Rorarius. Nel primo è a suo modo ‘risolta’, nel secondo no…
Sì, penso che si completino a vicenda, sono davvero complementari e potrebbero essere proiettati insieme. Vedendoli li ho immaginati come due aspetti di una stessa questione che rientra appieno nella sensibilità di oggi. Un momento nel quale ci si interroga sull’idea di un figlio e di un padre in una dimensione un po’ colpevolmente trascurata fino a oggi. Non si è mai pensato che un omosessuale potesse in qualche modo avere solamente ‘tendenze’ o idee paterne. Occuparsi di un figlio in un paese come il nostro se si è gay sembra impossibile, infatti il film è francese. Dall’altra parte, nel film tedesco ‘Chi l’ha visto’, l’idea del padre perduto rispecchia una tematica spesso legata all’omosessualità: l’idea che un papà svanito ti ha fatto smarrire qualcosa che non conoscerai mai più, un lato di te che ti è misterioso. Tutti in qualche modo cerchiamo nelle nostre radici la ragione per cui siamo quello che siamo. Queste radici nell’omosessualità si avvicinano molto di più alla figura materna mentre quella paterna resta chimerica, lontana. Sia nella letteratura che nel cinema abbiamo visto tante storie di rapporti tra un ragazzo omo e sua madre, qualche volta anche colpevolizzando la figura della madre molto oppressiva, troppo presente.
Il racconto più bello che ti posso citare in cui emerge un’omosessualità non ancora espressa è "Agostino" di Moravia. È anche un po’ il risveglio dei sensi: la figura paterna non c’è, il protagonista guarda gli uomini che corteggiano la madre, si interroga sul desiderio e anche la gelosia. Nel personaggio di ‘Chi l’ha visto’ ho visto l’idea di qualcuno che di sé non ha più nulla da nascondere, uno che vive in fondo un rapporto come sempre con i lati oscuri e quelli chiari ma si è accettato, non ha ancora la fase di conflitto. Però gli è rimasta come zona d’ombra questa mancanza, questo padre che non è solo un padre fisicamente assente ma significa anche per lui una ricongiunzione con qualcosa che lo potrebbe completare, la mancanza della parte adulta. Soprattutto nella figura molto tenera di questo Gianni, un bambino dentro un corpo di adulto con un’aria tardo-adolescenziale: non è un caso che non sembri cresciuto fisicamente. Ci ha messo molto di suo, una volontà di crescere, diventare adulto, capire anche se stesso, i suoi problemi, avere una maggiore comprensione del proprio essere omosessuale, trovare il faro della sua vita. La figura paterna ti manca quando non c’è anche se non sei ‘diverso’ dagli altri. Ma quando sei diverso dalle persone che ti circondano hai più voglia di una conferma in chi ti ha generato. È una cosa toccante, significativa di un certo percorso.
L’omosessualità si associa invece al senso di colpa in "Santina" di Gioberto Pignatelli, in cui il protagonista sogna l’intimità a letto con un uomo e poi ha un incubo in cui si trova in una latrina ed è costretto, pasolinianamente, a immergere la testa in un secchio di escrementi davanti alle suore. Non assomiglia per un certo verso ai mascheramenti del duca di Châtellerault nel proustiano "Sodoma e Gomorra"?
È vero. Però la scena di Santina che sorride mentre muore evoca un verso di Shakespeare che Pasolini ha fatto suo: il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro mentre il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso. Dimostra la dignità dei personaggi anche nel momento della caduta. Pignatelli è stato straordinariamente profondo nel comprendere lo stato d’animo dell’emarginato in quanto reagisce alla propria emarginazione, anche quando non ha nessuna possibilità di riscatto. È un colpo di coda estremo che regala una speranza anche ai più infelici. È un film molto forte e positivo, non c’è mai disprezzo per i personaggi, parla di amore libero dalle schematizzazioni. Sono esseri umani senza etichette, vivono il loro amore anche se è disperato e porta alla distruzione di sé. Il sorriso di Santina non è il perdono cristiano ma una vittoria: “non mi pento di averti amato”. È un messaggio bellissimo e di grande forza.
Che cosa pensi di questa esplosione di cinema a tematica queer, premiato un po’ ovunque?
Il timore è che diventi un filone che si sfrutta e poi finisce. Il pericolo maggiore è questo: rischia di essere di moda adesso, ma poi si getta. Dovrebbe essere introiettato, in qualche modo diventa carne e idea del cinema in generale. A quel punto non ci sono più steccati, definizioni restrittive. Ho sempre sperato che avvenisse. Piano piano non si parlerà più di cinema gay come ghetto, ma troveremo una sessualità raccontata in modo diretto e onesto in tutti i film. Nei film che ho scelto per il Torino Film Festival non c’era mai una chiave illustrativa della tematica omosessuale. In tutti c’era l’idea della necessità di ‘essere diversi essendo diversi’ per citare Sandro Penna. La forza sta nell’essere diverso senza appiattirsi alle idee condiscendenti.
Nell’Italia contemporanea di condiscendente c’è davvero molto, però. Nel mondo dello spettacolo, poi, c’è il gossip bieco che può fare la rovina di una persona…
Ognuno deve pensare di vivere e comportarsi come essere libero ma si assume anche la responsabilità dei propri gesti.
Certo, c’è la possibilità del coming out, in alcuni casi. Però a Rupert Everett non ha fatto certo bene, a livello di carriera, mentre per Ian McKellen è stata una specie di incoronazione…
Quello di Everett è un gesto straordinario, ha aiutato tanti altri che non possono vivere la loro omosessualità alla luce del sole. Penso al gay che vive all’interno di una società e un mondo molto più gretto e meschino di chi fa giornalismo e cinema, oppure allo studente di liceo deriso in un posto sperduto.
A Torino, però, lo scandalo del Premio Grinzane Cavour ha rivelato l’omosessualità del patron Giuliano Soria, ex presidente del Museo del Cinema…
Trovo profondamente crudele fingere di chiamare il proprio amante figlio, quando si vive in un certo mondo. Bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome: è pericoloso confonderle. Non c’è niente di male nel chiamare gli amanti amanti e figli i figli. Un omosessuale che non può essere padre è solo un pregiudizio.
Scusa la curiosità ma tu ti sei definito pansessuale… Che cosa volevi dire?
Trovo giusto dire come si è fatti. Ho avuto per tanto tempo seri rapporti eterosessuali, non posso nasconderlo. Non ho detto bisessuale perché mi sembra restrittivo, sono talmente privilegiato. Uno deve andare con chi gli pare, giovani e anziani. La pansessualità significa questo: il non schedare e non fare l’elenco delle persone con cui vai. Nello stesso periodo la Nannini ha dichiarato di essere ‘polisessuale’. Voleva dire la stessa cosa: è questa la battaglia per cui combattere.
Hai un figlio adottivo che si chiama Luan, conosciuto durante le riprese di ‘Lamerica’ in Albania… Mi racconti come è andata?
Ho conosciuto un’intera famiglia in un villaggio nel nord dell’Albania dove sono stato due anni e torno spesso. È composta da padre, madre, due figli maschi e una figlia. Mi hanno accolto amorevolmente: mancavano ristoranti e bettole, era un teatro di guerra. L’ho fatta venire in Italia tutta intera e ho adottato Luan. Io non ho eredi. La famiglia vive a Roma, ho voluto che diventasse mio figlio in senso legale. Si è sposato qualche anno dopo, con il mio cognome, e ha avuto tre bambine. Ho rapporti costanti con tutta la famiglia, è davvero la mia famiglia di fatto. Mia madre è morta a 38 anni, mio padre è emigrato in Argentina: ho subito l’assenza di affetti, sono quelli che ti costruiscono in un certo modo. Con loro li ho trovati. È una famiglia bella, siamo sempre in tanti, minimo una quindicina! È ingiusto e crudele spacciare il proprio amante come il proprio figlio, io non ne ho la necessità.
E tu sei single?
Alla mia età, si hanno altri tipi di rapporti che non negano la sessualità ma la guidano e l’alimentano anche di altre cose. Ho l’età di un nonno ma non correrei dietro a un giovanotto!
Il tuo prossimo film sarà ‘Il primo uomo’ tratto dall’ultimo libro incompiuto di Camus con la Cardinale nel cast…
Pensa che ho le copie fotostatiche del manoscritto originale. È un libro molto curato, i depositari sono stati gli eredi di Camus, la sua famiglia. È scritto a mano, con grafia piccolissima quasi incomprensibile. Questo spiega perché è stato pubblicato molto tempo dopo. Ora penso all’Algeria dove girerò ma anche a Torino, dove sarò ancora direttore del TFF l’anno prossimo!
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