Any Other e il diritto di ricordare, l’intervista

L'artista ci ha parlato del suo nuovo album, su come sentirsi meno solə, e quando smettere di essere speciali e iniziare a stare bene.

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@ludovicadesantis_pht
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Quando la scorsa settimana ho ascoltato il nuovo album di Any Other ho provato una calma che cercavo da giorni. Quella calma che avverti quando le emozioni accumulate sembrano prendere forma e parola, e non c’è più bisogno di impegnarsi a verbalizzarle al mondo esterno. È un album che ascolti e sembra ascoltarti a sua volta.

Ma stillness, stop: you have a right to remember – terzo lp di Any Other (nome d’arte di Adele Altro) dopo i precedenti album Silenty. Quietly. Going Away (2015) e Two, Geography (42 Records, 2018) – non invita a chiudersi a riccio: al contrario, è un grande atto di vulnerabilità. Otto tracce arrangiate e prodotte insieme al produttore e migliore amico Marco Giudici che fanno venir voglia di aprirsi ancora di più con chi abbiamo davanti. Come una conversazione a notte fonda con quella persona fidata che sa accogliere tutto: identità di genere, aspettative altrui, rielaborazione del trauma, nuove consapevolezze da portarci dietro con le prime luci del giorno. È anche un gentile reminder che l’Italia ha un sottosuolo indie rock pieno di vita, o come scriverebbero persone più qualificate di me, ‘dal respiro internazionale’ (e non solo perché canta in inglese).

 

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In Stillness, stop  Adele Altro (i cui pronomi sono they/them) si arrabbia, soffre, medita, e soprattutto ricorda: come ci dice nel titolo, abbiamo il diritto di ricordare, le cose brutte come quelle belle. Un diritto di tuttə, ma con un occhio di riguardo per le persone queer che sembrano confinate in una sola narrazione, destinatə a giustificarsi sempre di più.

Come nei precedenti lavori, il suo obiettivo rimane quello di poterci mettere in comunicazione l’unə con l’altrə, con il fine di stare insieme e farci sentire ancora più parte di una comunità. E possibilmente vivere meglio anche la solitudine.

Ma su questo e molto altro ho chiesto direttamente a ləi.

Sono passati sei anni da Two Geography. Se dovessi descrivere quell’album e Stillness con due colori, quali sarebbero?

Urca! Nella mia testa le canzoni specifiche hanno dei colori, ma l’album intero è difficilissimo. Two Geography forse un celeste un po’ deprimente, mentre Stillness è una cosa asettica e in equa misura un’esplosione di colori diversi.

Questo è un album che parla di ricordi. Ma spesso si dice che quello che ricordiamo non corrisponde realmente ai fatti accaduti. Secondo te abbiamo il diritto di ‘mentire’ su quello che ricordiamo?

In parte credo sia inevitabile. Perché quello che ci succede poi ritorna sotto il nostro ‘filtro’ personale. Ma forse è meglio esserne consapevoli e cercare di farlo il meno possibile. Più che altro perché secondo me aiuta poco a proteggersi in ogni senso, e rischiamo di idealizzare cose che poi magari sono una merda. Quindi secondo me sempre meglio cercare di essere il più limpidi possibili.

Tu sei in Italia, ma scrivi e canti in inglese. Mi sembra spesso ci sia il paradosso che l’italiano è considerata la lingua più verbosa e musicale per eccellenza, ma con l’inglese riusciamo ad esprimere tanto con ‘meno’ parole. Anche per te è così?

Io ho sempre scritto in inglese, quindi per quanto riguarda la mia esperienza non riesco a fare un grande paragone. Però sono d’accordo, per certi versi l’inglese mi sembra una lingua molto più condensata, che permette di cogliere alcuni concetti senza dilungarci troppo. E poi ha sicuramente un sacco di vantaggi, come banalmente il fatto che le parole non hanno un genere e permettono di raccontarci in modo anche diverso.

A proposito, in quest’album parli anche di scoperta della propria identità di genere. In un’intervista Florence Welch di Florence + The Machine una volta disse che i suo pronomi sono she/her ma quando sale sul palco non lo sa più, perché diventa qualcos’altro che è difficile definire. Anche per te la musica è una forma d’arte dove esprimerti più facilmente senza ‘forma’ o definizioni?

Sì e no allo stesso tempo. C’è una parte del far musica che è estremamente personale, dove mi interfaccio con pochissime persone che fanno parte della mia famiglia scelta – tipo in questo caso il mio migliore amico Marco Giudici – con cui ho prodotto il disco e con cui non c’è il filtro del genere. Con loro non penso troppo di essere ‘qualcunə’ che fa delle cose, ma le faccio e basta. E poi c’è tutta una parte d’interazione con altri, dove il genere non è tanto qualcosa che metto io, ma qualcosa che mi sembra quasi di “subire”. Non necessariamente per cattiveria o brutte intenzioni, ma anche per banale ignoranza sei sempre e solo ‘la donna del gruppo’. È qualcosa un po’ fuori dal mio controllo, perché non ho sempre la certezza che tutte le persone che vengono ai miei concerti abbiano consapevolezza di queste cose. Quindi ti direi che per me è un po’ a metà.


La scrittura ti fa sentire più o meno solə?

Sicuramente mi aiuta a mettere la solitudine in prospettiva. Già di mio sono una persona iper-riflessiva che si pone mille domande, scrivere mi aiuta ad uscire da questa condizione e a rendermi conto che mi affliggono cose che  riguardano più o meno tuttə. È chiaro che le nostre esperienze individuali rimangono nostre e personali, ma basta un minimo di confronto con gli altri per renderti conto che non c’è niente di “speciale” in quello che stai provando – e lo intendo nel senso più positivo possibile. Mi fa pensare banalmente: ah, allora non sono l’unicə in questa situazione, e mi sento meno solə.

Qual è stata la canzone più difficile da scrivere per quest’album e quella invece più liberatoria?

La più liberatoria è stata Stillness, stop, la prima del disco. Perché l’ho scritta almeno cinque anni fa e riguardandola adesso ci vedo un sacco l’urgenza di rompere una parete per uscire fuori. Come osservare una versione ‘baby’ di sé stessə, e riconoscere una necessità che inizia a prendere sempre più forma dentro. Invece la più difficile credo sia stata Need of Affirmation. Scrissi la bozza penso nel 2016, e nel tempo ha cambiato sempre più veste e significato, rispetto il concetto originale.

Proprio in Need of Affirmation ad un certo punto dici: I don’t want to feel special. I just want to feel good. Secondo te quando smettiamo di essere speciali e iniziamo a stare bene?

Quella frase ha un senso molto specifico: l’ho scritta pensando ad ogni persona queer che vorrebbe vivere la propria identità in maniera aperta e almeno una volta si è sentitə dire che ‘è solo una moda, una cosa superficiale, e volete solo attirare l’attenzione’. Ma invece il senso è proprio quello: non me ne frega niente di essere speciale o particolare, voglio solo star bene e poter vivere questa cosa senza filtri o compromessi. Quantomeno tra le mie relazioni più vicine.

Dal vivo Any Other suonerà il prossimo 17 febbraio allo sPAZIO211 a Torino, il 23 a Musici Per Caso a Piacenza, il 29 al Locomotiv a Bologna, l’1 marzo a Officina degli Esordi a Bari, il 2 all’Angelo Mai a Roma e il 9 al Colorificio Kroen a Verona.
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