Autrice e producer, Asteria, all’anagrafe Anita Ferrari, si sta facendo strada in quell’humus ricco di fermento che è ormai la scena urban del nuoto cantautorato italiano, che non disdegna di cantare anche in lingua inglese.
Pochi singoli all’attivo, tra cui la magnifica “Domopak”, traccia acerba ma vibrante di spunti che raccontano molto del potenziale di sound di quest’artista, Asteria ha superato il milione di streaming su Spotify, ed è da poco tornata in featuring con piazzabologna nel nuovo singolo “Jack e Lacrime”, racconto di uno spaccato di vita reale della night life romana, in quel dark side della dolcevita capitolina nel quale seguiamo il barcollare di un ragazzo ubriaco e innamorato che non riesce a trovare “una smart all’alba a Testaccio”.
Asteria si è raccontata a Gay.it, tra carriera e paure, ambizioni e dolori, affrontati con sincerità nei testi delle sue canzoni. Ecco cosa ci ha raccontato.
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Come nasce Asteria?
Asteria nasce dalla necessità di esprimermi e di raccontare le mie emozioni. Mi sono sempre rispecchiata tanto nella musica degli altri e ciò mi ha aiutata a superare momenti molto difficili. Asteria è nata proprio nel momento in cui ho iniziato a sentire il bisogno di raccontare me stessa e la mia visione delle cose. Non ho trovato subito il modo più efficace per far arrivare quello che intendevo dire, ma con il tempo ho trovato la chiave e il sound che cercavo.
Hai uno stile molto particolare, come hai trovato questi suoni e questo modo di esprimerti, anche attraverso la tua immagine?
Penso che la ricerca del sound sia stata agevolata dal fatto che ho sempre ascoltato tanta musica di genere diverso e ciò mi ha permesso di trovare la combinazione di sonorità più adatte a me. Non mi piace limitarmi ad un genere, mi piace invece “citare” generi unendoli a ciò che racconto per enfatizzarlo. Ci ho messo un po’ di tempo a trovare la “forma” per raccontare la mia storia, sia a livello di narrazione che di sound e devo dire che avere un team aiuta molto su questo aspetto perché ti permette i capire come viene percepito da fuori il messaggio che cerchi di passare. Per quanto riguarda l’immaginario io quando scrivo ho sempre in mente delle scene, dei colori e degli elementi, oltre ovviamente alle sensazioni che mi accompagnano e questo rende tutto più semplice anche con chi si occupa degli shooting e delle grafiche. Ogni mia canzone parte proprio da una visione ed è ciò che mi piace di più.
Canti le sofferenze, le speranze e la fluidità delle nuove generazioni, a cui tu stessa appartieni. C’è un messaggio che vorresti far passare con la tua musica o si tratta più di una fotografia delle tue emozioni e sensazioni?
Diciamo che non c’è sempre e solo un solo messaggio che voglio far passare. Sicuramente cerco di veicolare quello che io negli anni ho imparato, nonostante sia ancora molto giovane. Ora le generazioni stanno viaggiando a velocità molto più elevate rispetto anche solo a qualche anno fa, quando andavo a scuola io. Intendo che all’interno della stessa generazione (gen Z) di cui faccio parte si notano già un’infinità di differenze, perché tutto va più veloce e brucia prima. Come se il tempo si fosse frammentato in frammenti sempre più piccoli. Come l’LFO di domopak. Penso quindi che utilizzando un linguaggio fresco io possa fare un po’ da ponte tra esperienze che ho vissuto e persone che magari si ritrovano nelle mie stesse esperienze ma sono più giovani. A volte basta riuscire a catturare l’attenzione attraverso le emozioni per veicolare un messaggio molto più profondo ed è quello che cerco di fare io.
Cosa significa per te la parola inclusione?
Per me l’inclusione è strettamente legata alla sensazione di libertà. Includere non significa per forza comprendere l’altro, ma farlo sentire ascoltato e accolto. Includere significa smettere di avere paura e stringere la mano a tutto e tutti. Penso che sia la sfida più grande che ognuno di noi possa affrontare, cioè accettare di avere dei pregiudizi che sono estremamente umani e metterli da parte in virtù dell’amore per gli altri e per se stessi. Essere inclusivi non è solo progettare inclusione in grande, ma anche sorridere a chi ci è ostile, partendo dalla sfida più difficile, cioè quella di sorridere a noi stessi.
Cosa speri per il futuro?
Spero di riuscire a raggiungere sempre più persone in maniera profonda. Mi auguro che la mia musica mi porti vicino a chi ne ha davvero bisogno e che salvi qualcuno da qualche serata difficile o, al contrario, che la mia musica possa finire nello stereo di una macchina e che faccia tremare i bassi del sub tirando fuori la voglia di vivere alle persone. Vorrei che quello per cui vivo potesse battermi il cinque.
Foto di copertina: Agnese Carbone
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