Il nome di Patricia Nell Warren non sarà forse noto a tutti i lettori gay italiani, ma negli USA sono pochi quelli che non hanno sentito parlare di questa scrittrice 74enne che ama mettere al centro dei propri scritti il conflitto tra le libertà personali e la cultura autoritaria. La sua notorietà si deve soprattutto al libro La corsa di Billy (The front runner) edito in Italia nel 2007 per i tipi della Fazi ma pubblicato per la prima volta negli USA nel lontano 1974: considerato la storia d’amore gay più letta di sempre, il romanzo racconta la relazione tra l’ex-Marine Harlan Brown, allenatore di atletica, e del suo bello e talentuoso pupillo Billy Sive che, infrangendo tutti i tabù, partecipa come atleta dichiaratamente gay alle Olimpiadi di Montreal dove troverà la morte per mano di un estremista omofobo.
Ora Fazi pubblica anche il sequel La sfida di Harlan (tit. or. Harlan’s Race, 423 pagine, 18,50 euro), pubblicato per la prima volta nel 1994, che indaga su come l’ormai quarantenne Harlan combatta per ricostruirsi un equilibrio tra continui misteriosi attacchi di matrice omofoba e la ricerca dell’amore.
Se lo sfondo in cui si svolgeva La corsa di Billy erano i tempestosi anni ’70, con il loro carico rivoluzionario di energie giovanili pronte a mobilitarsi per un’ideale, La sfida di Harlan è intriso del passaggio agli anni ’80, con lo spegnersi di quelle pulsioni sovversive per mano di una epidemia dapprima sconosciuta poi tristemente nota con il nome di Aids. Ma l’esplodere della diffusione del virus non è che il background su cui l’affascinante allenatore è costretto a misurarsi con le proprio paure e rigidezze.
L’omicidio di Billy non sembra chiudersi con l’arresto dell’esecutore materiale: Harlan, insieme con le guardie di sicurezza – gay anche loro – a cui ha chiesto protezione, individua le prove dell’esistenza di un complice che la polizia però non si preoccupa di rintracciare. D’altra parte di lì a poco lo stesso Harlan avrà la prova che il persecutore non può essere solo l’assassino di Billy: lui stesso riceve anonime lettere minatorie e presto dovrà subire un nuovo attacco omicida.
Ricorrendo a un plot di impronta quasi poliziesca, la Warren si dedica con attenzione alla descrizione minuziosa dei personaggi: tra loro il giovane Vince, podista amico dello scomparso Billy e tentato di intraprendere la strada della lotta armata per contrastare la crescente ondata omofoba della società, oppure l’ispano-americano veterano del Vietnam Chino, i cui possenti muscoli e la cui freddezza da combattente non riescono a mitigare le profonde ferite di una omosessualità vissuta senza pacificazione. Ma l’abilità dell’autrice si concentra soprattutto sulla partecipata descrizione dell’ex-Marine Harlan, ormai costretto a vivere con una continua ossessione per la sicurezza propria e dei suoi cari: mai sopraffatto dai pericoli ma indicibilmente sofferente per le perdite che questi gli procurano, Harlan è un uomo la cui rigidezza lo rende incapace di mostrare alcuna simpatia per le debolezze delle persone che pure gli offrono il loro affetto, indurito dalla perdita del “grande amore” ma anche incapace di rassegnarsi a una vita solitaria.
Capace di ammaliare tutti i maschi gay in cui si imbatte, Harlan deve però confrontare il desiderio di amare con l’istinto della conquista erotica. Una sfida comune a molti altri membri della comunità gay che lo circonda e che, proprio in questi anni, subisce i primi colpi di una misteriosa malattia che comincia a falcidiare molte giovani vite.
Persecuzioni omofobe, relazioni contrastate, morti improvvise e introspezione psicologica sono gli ingredienti di questo romanzo sicuramente meno riuscito dell’opera che lo precede e privo di grandi colpi di scena fino ai drammatici capitoli finali in cui tutto si svela. L’opera, tuttavia, sorprende per la chiarezza con cui l’autrice riesce a leggere la storia della comunità omosessuale statunitense a cavallo tra anni ’70 e anni ’80, restituendo alcune intuizioni perfettamente lucide che permettono anche al lettore contemporaneo una immedesimazione conturbante. Tanto che viene da chiedersi se ancora oggi, a quasi 30 anni dallo scoppio dell’epidemia di Aids, noi stessi siamo riusciti a rielaborare quel trauma in maniera approfondita.
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