Con la sentenza 170/2014 pronunciata ieri, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che impone lo scioglimento del matrimonio se uno dei due coniugi ottiene la riassegnazione del sesso. Nello specifico, la parte della legge oggetto della sentenza è quella che impedisce “ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata”. In sostanza, se in una coppia etero sposata uno dei due coniugi cambia sesso, la legge non può imporre il divorzio, dando così vita ad una coppia omosessuale regolarmente sposata.
La sentenza nasce dal caso, di cui Gay.it si è occupato , di Alessandra Bernaroli, impiegata di banca bolognese, nata uomo, sposatasi con un’altra donna e poi sottopostasi a tutto il percorso che porta al cambiamento di sesso. Dopo la pronuncia della Corte, Alessandra e sua moglie potranno continuare a rimanere sposate.
La sentenza è stata immediatamente accolta come un’altra pagina verso i diritti lgbt scritta, ancora una volta, in un’aula di tribunale, invece che in Parlamento. Secondo la Consulta la legge che regola la rettifica di attribuzione del sesso, la 164, è incostituzionale perché se da una parte scioglie automaticamente il legame matrimoniale una volta che uno dei due coniugi ha cambiato sesso, dall’altra non prevede che questo possa essere sostituito con una forma di convivenza riconosciuta “che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore”.
I giudici scrivono inoltre che il legislatore deve intervenire “con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti”. Un invito esplicito e perentorio al Parlamento che sulla questione delle unioni tra persone dello stesso sesso evita di pronunciarsi da tempo.
Ma le perplessità sulla pronuncia non mancano.
Come precisa il presidente di Rete Lenford Antonio Rotelli in una nota pubblicata su Facebook, infatti, “a caldo, non è una sentenza rivoluzionaria, ma che sa di occasione mancata, anche se il risvolto è che il legislatore ha ricevuto il monito ad intervenire subito per introdurre un istituto alternativo al matrimonio, che sarà accessibile da tutte le coppie dello stesso sesso”.
Il punto è che, sebbene si inviti il Parlamento a legiferare in tema di unioni tra persone dello stesso sesso, la Corte Costituzionale parla genericamente di “forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima” e non di matrimonio, forma che il legislatore potrebbe, volendo, scegliere di legalizzare anche per le coppie omosessuali.
In ogni caso, la sentenza stabilisce che il rapporto tra due persone sposate, nel caso in cui una delle due abbia ottenuto la rettifica anagrafica del sesso, è assimilabile all’unione tra persone dello stesso sesso ed è tutelata ai sensi dell’art. 2 della costituzione.
Per Flavio Romani, presidente di Arcigay, la sentenza “ha il senso dell’ultimatum”. “Gli ermellini – dice Romani in una nota – hanno accolto il ricorso e hanno segnalato perentoriamente il vuoto legislativo che in Italia permane sul tema. Se entro 90 giorni non ci sarà una norma, quel vuoto sarà in qualche modo colmato, quantomeno per il caso in esame. A quel punto saremo costretti a dirci che questo Parlamento è inutile, non fa il suo mestiere”. “Un ringraziamento enorme – conclude Romani – rivolgiamo alle due spose e ai loro legali, alla tenacia con cui portano avanti una battaglia che ha un valore enorme per tutto il Paese”.
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