Carlotta Vagnoli: spendiamo tempo, energie e denaro per non sentirci a disagio, ma la Generazione Z ci salverà

Il femminismo è tale solo se intersezionale: battaglia ambientale, antispecista, antirazzista, diritti della comunità LGBTQ+, lotta di classe, corpi non conformi, diritti delle donne e violenza di genere. Intervista manifesto con Gay.it

Carlotta Vagnoli - Gay.it
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10 min. di lettura

Nella confusione del presente, sono molti i libri che tentano di spiegare il cambiamento e l’evoluzione della nostra società. In questo quadro si inserisce Maledetta Sfortuna (Fabbri Editore, 192 pp, 16€), l’ultimo libro di Carlotta Vagnoli, femminista e attivista intersezionale. L’ho raggiunta al telefono per parlare di violenza di genere, consenso, istruzione e rivoluzione culturale.

Inizierei dalla fine. A conclusione del tuo libro citi una canzone de I Cani: “Vorrei stare proprio così, avere cose pratiche in testa, i soldi per mangiare, i dischi, i videogiochi e basta”. Questa dici essere la tua prima frase da donna libera e un po’ ricorda ciò che Virginia Woolf scrive in Una stanza tutta per sé. Per te, sono delle priorità valide ancora oggi o sono cambiate le prospettive?

Ascoltavo tanto quella canzone, come racconto nel libro, in un periodo per me molto difficile. Come dicevi può ricordare le parole di Virginia Woolf, dove con una stanza tutta per sé intendeva soprattutto uno stipendio, quindi l’indipendenza economica. L’accostamento non è casuale, perché quando si subisce violenza domestica è molto probabile che dietro ci sia un forte squilibrio economico tra le parti. Quando non si percepisce stipendio o le risorse sono scarse, è molto difficile uscire dal circuito della violenza. Quindi le cose pratiche sono sicuramente attuali e centrali nella rivoluzione culturale. Anche perché la difficoltà di accedere al lavoro è uno dei problemi principali delle categorie marginalizzate, come ad esempio le persone trans o le donne con contratti part-time. Mi viene in mente il libro di M. Murgia e C. TagliaferriMorgana. L’uomo ricco sono io –dove si sottolinea quanto è salvifica la possibilità di essere indipendenti econominamente. Certo, le prospettive oggi sono cambiate, oltre la praticità vorremmo anche delle leggi che tutelino tutte le categorie a rischio. La praticità ha bisogno di essere sostenuta dalla teoria che è in mano alle istituzioni. Il Parlamento di molte cose non se ne vuole occupare, basti vedere il DDL Zan parcheggiato lì da mesi e mesi, o alcuni aspetti del codice rosso che sono ancora un po’ oscuri. Bisogna estendere i diritti in modo XXL come dice la mia amica Cathy La Torre.

Nel libro inserisci una vera e propria “conta” dei Centri AntiViolenza (CAV). In che stato di salute vertono e quanti e quali problemi, sia interni sia esterni, affrontano quotidianamente?

I Centri AntiViolenza sono una salvezza, perché spesso i primi attori nell’aiuto alle donne (polizia, pronto soccorso) sono impreparati ad accogliere determinate criticità. L’elenco che io inserisco è comunque limitato. Considera che quando le donne finiscono in una situazione di pericolo si attivano delle reti sotterranee che spesso sono tangenti e non interne ai CAV. Ci sono province in cui l’aiuto dei Centri non riesce ad arrivare. Inoltre, le donne trans non sono considerate da diverse associazioni, oppure non si hanno i soldi necessari per i mediatori culturali, così da escludere a priori grandi fasce della popolazione. I fondi da parte dello Stato sono sempre fissi e sempre troppo pochi. Però al momento resta uno dei migliori aiuti che si possa avere. Anche reti come Non una di meno sono fondamentali a livello locale.

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Carlotta Vagnoli ad Angelo Rosa di Gay.it: “È essenziale ampliare i diritti e le garanzie per smantellare un sistema escludente, che basa la sua sopravvivenza sulla creazione di élite e sentimenti aspirazionali. Non è facile vedere le cose a 360°.” Photo: Pietro Baroni (@pietrobaroni)

Penso che tu sia stata fortunata. All’inizio del libro racconti che alle scuole medie una formatrice venne in classe per spiegare cosa fosse la violenza di genere. Io sono un po’ più giovane di te e questo non è mai avvenuto. Inoltre, dal 2017 tieni lezioni nelle scuole medie e superiori su questi temi. Che risposta vedi da parte delle giovani generazioni? I/Le professori/esse sono più pronti ad affrontare questi temi?

Io ricordo le mie lezioni di educazione sessuale. C’era la professoressa di biologia con un cono e un cetriolo, da allora non ci ha più rivolto lo sguardo. Per loro era un’ora che andava inserita nel piano formativo, in cui spiegare la contraccezione – tra l’altro in modo eteronormato e meccanico – escludendo tutto il discorso sulle malattie, sugli apparati sessuali o altro. Per fortuna negli anni l’autonomia scolastica è aumentata. Oggi, le scuole e gli insegnanti singoli o i collettivi di studenti cercano lezioni esterne da associazioni o centri antiviolenza, soprattutto durante le cogestioni o le assemblee. Questo avviene in quanto a livello ministeriale non ci sono tutele, corsi o obblighi per frequentare lezioni sulle questioni di genere. Credo che la Generazione Z, che è la mia preferita, sia sul pezzo. Durante le cogestioni si crea un ambiente bellissimo. Trovi lezioni sui diritti della comunità LGBTQ+, sull’educazione sessuale, sul consenso. Molti parlano di lotta di classe, dell’integrazione e di immigrazione. Ecco, finita la cogestione, ti ritrovi a fare lezione a fianco di presidi o professori con cui più volte ho litigato. La scuola è gestita da persone che non hanno ben chiara la matrice culturale di tutti questi fenomeni. Mi ritrovo a parlare di condivisione non consensuale di materiale intimo e ricevo da parte loro risposte del tipo “questo non esula voi ragazze dal non mandare determinate foto”, come mi è capitato in un noto liceo di Roma. Il livello generale è questo.

Durante le tue lezioni vedi reazioni differenti da parte di ragazzi e ragazze?

Le ragazze sono sicuramente lanciatissime, perché hanno bisogno anche di confrontarsi. Ma – quando sono in presenza – c’è tanto interesse anche da parte dei ragazzi. Al tempo stesso, è inquietante notare come, nell’ultimo anno e mezzo di DAD, tutto si è trasformato in una terra di nessuno. Non mettendoci la faccia, i ragazzi cadono nella mascolinità performativa. Si fomentano a vicenda, fanno branco nell’anonimato. In presenza, invece, sono molto interessati. In una scuola parlando di revenge porn, molti ragazzi mi hanno chiesto aiuto su come trattare l’argomento con le proprie amiche, vittime di questo abuso. È un ottimo segnale. Ma se ci fosse, in principio, un’attenzione da parte delle istituzioni non si arriverebbe a fare queste domande.

Ancora oggi, quando avviene un femminicidio, si vede l’evento come se fosse isolato, senza tener conto di tutta la rete di violenze che ha fatto sì che quel femminicidio avvenisse: dalla violenza verbale, alla differenza salariale. Come ti spieghi questo fenomeno? Il tuo libro è un ottimo viaggio alla ricerca delle sue radici.

È molteplice la motivazione. Da una parte è sempre stato narrato così. Quando c’è un femminicidio, le agenzie stampa principali mandano i redattori sul campo a chiedere informazioni. Spesso intervistano i vicini di casa o la famiglia del femminicida. Questa cosa aiuta molto a vendere. Sicuramente le informazioni saranno parziali o imprecise e ancor peggio, empatizzano con il punto di vista dell’assassino, escludendo completamente quello della vittima. D’altro canto deresponsabilizzare aiuta ad abbassare la soglia del panico tra la popolazione. Se non è una questione culturale, ma un caso isolato, questo non accadrà mai a noi. Fa molta scena dire che è stato un mostro, un gigante buono o una scimmia cattiva (come nell’ultima notizia su La Repubblica). Soprattutto fa pensare che quella sia una fatalità o un caso di sfortuna. Invece, essendo un fenomeno culturale, allora vuol dire che all’interno della nostra società è tutto predisposto per un epilogo così tragico. È una maledizione – quindi Maledetta (Sfortuna ndr) – che ci trasciniamo da sempre. Non capire questo aspetto è funzionale al sistema. Quando non analizzi ciò che accade in casa tua, inteso come società in senso lato, non arrivi a notare le enormi problematicità alla base della nostra cultura, dove il controllo della stessa è nelle mani degli uomini e per gli uomini. Non voler ammettere questo aspetto, vuol dire deresponsabilizzarci. Questo consolida il privilegio.

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Per quanto riguarda il femminismo e tutte le lotte ad esso legate, quanto ti senti ancora dentro al sistema e quanto credi di starne fuori? Soprattutto quando hai capito che c’era bisogno di una riflessione ulteriore e iniziare a uscirne? E grazie a chi?

Come sappiamo, il femminismo è tale solo se intersezionale. Interseca la battaglia ambientale, antispecista, antirazzista, per i diritti della comunità LGBTQ+, la lotta di classe, i corpi non conformi, i diritti delle donne e la violenza di genere. Bisogna sempre avere una visione d’insieme, perché il problema alla base è essenzialmente la società patriarcale a sfondo capitalista. In quest’ottica, sicuramente staccarsene è difficile, si procede per gradi e per sopravvivere bisogna scendere a patti. È essenziale ampliare i diritti e le garanzie per smantellare un sistema escludente, che basa la sua sopravvivenza sulla creazione di élite e sentimenti aspirazionali. Non è facile vedere le cose a 360°. È uno studio, e poterlo fare è anch’esso un privilegio. Per esempio, alla battaglia antispecista io ci sono arrivata un anno fa. Da allora è cambiata la mia dieta e ho smesso di comprare pellame, che ha anche un impatto sull’ambiente enorme. Ascolto molto gli altri, grazie ai social conosci persone incredibili, come Cibo Supersonico e Sofia Righetti per antispecismo e abilismo; Viola Carofalo che è una fonte inesauribile sulla lotta di classe; Leila Belhadj Mohamed esperta di geopolitica. Insomma, lì ci sono tutte le mie sorelle e compagne che aiutano a creare un quadro più chiaro e completo. Tornando al dentro/fuori il sistema, l’importante è essere quanto più fedeli alla propria idea facendo il meglio con i mezzi a disposizione. Ad esempio, non si può chiedere a chi ha dei salari bassissimi o dei corpi non conformi di non comprare nei negozi di fast fashion, che spesso hanno una vasta gamma di prodotti a dei prezzi stracciati. La situazione è complessa e dobbiamo creare una società più accessibile e sana per chiunque, partendo ovviamente dai diritti.

Spesso le femministe della “quarta ondata”, di cui tu fai parte, sono entrate in conflitto con le femministe della “seconda ondata” che hanno rivendicato il loro essersi battute per cause ben più nobili. Perché credi si creino queste “rivalità” pur avendo scopi dichiarati comuni? 

Penso ai discorsi di Barbara Palombelli, prima a Sanremo, poi a Forum. Quello è un atteggiamento paternalista più che rivale. Rappresenta un femminismo bianco e borghese, cioè la fascia di popolazione che negli anni ‘60/’70 ha avuto la possibilità di lottare. Quando mi dicono noi abbiamo combattuto per questi diritti, ribatto che una legge da sola non basta mai. Certo sono leggi fondamentali senza le quali non saremmo qui a parlarne. Oggi però, abbiamo capito che il problema è la cultura alla base di questa società ed è il momento di riformarla. Le donne della seconda ondata credono che noi stiamo tradendo le loro conquiste, ma non è così. Si tratta semplicemente di allargare la fetta di diritti, includendo molte lotte e azioni che a loro sembrano inutili. Parlo della battaglia sul nudo, sui corpi, sul sex work, sulla libertà sessuale, che sfortunatamente va ancora ribadita. Perché è proprio partendo da quell’idea di possesso del corpo femminile che si arriva alla stereotipizzazione e a sua volta alla violenza di genere. Non penso sia utile uno scontro, bisogna accettare che tutti i movimenti politici (come è il femminismo) evolvono insieme alla società. Non possiamo pensare di essere ancora fermi agli anni ‘70. Abbiamo bisogno di portare avanti battaglie più inclusive, abbracciando ad esempio le persone trans, spesso escluse da un sedicente femminismo, o tutta la categoria del sex work.

La stessa de Beauvoir era intransigente verso le donne che si adeguavano al sistema borghese e patriarcale. Perché molte donne si trovano a proprio agio e sono alleate al sistema? Tu verso di loro conservi lo stesso sguardo di Simone de Beauvoir o sei più clemente e accogliente? 

Allinearsi al sistema te lo insegnano da quando nasci. Non è nella mia indole puntare una pistola alla tempia a chi non ha gli strumenti per rendersi conto dei propri limiti. Io fino a otto anni fa non ero cosciente del sistema di cui facevo parte, anzi mi dicevano che per avere successo avrei dovuto fare il maschio tra i maschi – restando femminile e piacente – o fare l’ancella del patriarcato. Senza avere delle nozioni è difficile scardinare questo comportamento. Ci vuole cultura e per farla io mi rivolgo a un sistema che deve radicalmente cambiare.

Carlotta Vagnoli
I Millenials, cioè la mia generazione, hanno letteralmente fondato i social. Noi abbiamo trovato un mondo secondario su cui appoggiarci. Lo abbiamo visto evolvere e ci siamo adattati. Ora, per fortuna, è arrivata la Generazione Z che è nata con il digitale e sta facendo le scarpe a tutti.” Photo: Pietro Baroni | @carlottavagnoli

I social sembrano aver dato autorevolezza a singole voci, magari ognuna esperta nel suo ambito. Proprio come te, ci sono i Tlon con la filosofia, Emilio Mola con la politica, Francesco Costa (pur avendo una base solida al Post) sugli affari americani… io credo sia una sorta di rivincita da parte di intere generazioni che hanno visto, nei decenni passati, il loro futuro confuso, oltre che negato. Mi chiedo come mai i canali ufficiali di comunicazione sembrano totalmente ignorare questa tendenza, preferendo – per la maggior parte – ancora affidarsi alle stesse voci da anni. Che idea ti sei fatta di questo aspetto e come i social e l’informazione tradizionale possono collaborare?

I media tradizionali sono stati creati dai baby boomers che nascono con il boom economico nel secondo dopoguerra. Fondamentalmente è sempre stato un loro spazio, correlato di autorevolezza, maschilismo e paternalismo. In questo sistema le giornaliste sono sempre una goccia nel mare e soprattutto sono interscambiabili. L’importante è avere delle donne che lavino la loro coscienza. I Millenials, cioè la mia generazione, hanno letteralmente fondato i social. Noi abbiamo trovato un mondo secondario su cui appoggiarci. Lo abbiamo visto evolvere e ci siamo adattati. Ora, per fortuna, è arrivata la Generazione Z che è nata con il digitale e sta facendo le scarpe a tutti. Loro hanno il potere di far fallire i media tradizionali, dato che raramente ne usufruiscono. D’altro canto, come dicevi, ci sono esempi della mia generazione che fanno ottima informazione tramite i social. Ecco, a questo punto io dico guardiamo il nuovo; i media tradizionali li vedo vicini al fallimento ed ora una collaborazione è difficile. Avverrà anche lì un ricambio generazionale e non so se questo porterà a un replicarsi dei sistemi di potere finora validi. Certo mi aspetto una grande rivoluzione, magari un connubio digitale tra Millenials e GenZ. Resto convinta che quest’ultima generazione porterà al cambiamento definitivo.

Virginie Despentes in King Kong Theory scrive: “Perché l’ideale di donna bianca, seducente ma non troia […] quella a cui dovremmo fare lo sforzo di assomigliare […] poi non l’ho mai incontrata da nessuna parte. Mi sa tanto che non esiste”. Domanda complessa, ma perché credi che l’uomo non possa fare a meno di creare modelli in cui ingabbiarsi e a cui aspirare? In fondo nessuno li rispecchia, fanno solo del male.

Io penso che da una parte ci sia il sistema capitalista che ti dice o sei vincente o non sei nessuno. Mi vengono in mente anche alcuni spot come quello della Nike “Just Do It”. C’è questa spinta ad essere sempre migliori, con lo scopo di creare frustrazione. Naomi Wolf nel suo saggio “il mito della bellezza dice cose valide soprattutto per il corpo delle donne. Nella nostra società sono stati creati dei miti, veri e propri idoli con corpi irraggiungibili.  Sono cresciuta negli anni ’00 ed era un continuo mostrare modelle altissime e magrissime. Io pensavo non sarò mai così. Tutte le riviste erano la dieta del minestrone o come fare per essere Kate Moss?, te la facevano passare come l’unica soluzione, o così o sei un fallito. A quel punto cosa facciamo? Spendiamo tempo, energie e soprattutto denaro per cercare di non sentirci a disagio. Con questi distrattori, siamo completamente scollegati dai giochi di potere. Ci dimentichiamo dell’importanza della partecipazione. Siamo troppo impegnati a non sentirci a disagio all’interno di una società performativa e unificante. Io credo che sia tutto funzionale al mantenimento di questo sistema economico massacrante.

Photo: Pietro Baroni (@pietrobaroni)

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