Un curioso filo rosso, anzi blu oltremare, accomuna molti dei film a tematica queer presentati all’ultimo festival di Cannes: l’elemento acquatico. Ecco la distesa cristallina densa di segreti nel sorprendente “L’inconnu du lac” di Alain Guiraudie dove si specchiano eiaculazioni oceaniche, la jacuzzi deputata alle confidenze sentimentali nell’emozionante “Behind The Candelabra”, la piscina dove rischia lo strangolamento il buffo protagonista gay di “Les garcons et Guillaume, à table”: l’acqua è la vera protagonista, testimone di un ritorno anti-metropolitano alla natura e riflesso di una certa fluidità dello sperdimento amoroso. In una manifestazione peraltro inondata da piogge torrenziali (anche cinematografiche: vedasi l’acquazzone metaforico che apre il cupissimo “Les salauds” di Claire Denis) e dove tutti piangevano, da Michael Douglas mentre ricorda il suo sconfitto cancro alla gola fino alle commosse vincitrici della memorabile Palma d’Oro lesbica “La vie d’Adèle”, la travolgente coppia Exarchopoulos-Seydoux che ha davvero segnato quest’ottima edizione.
Al Marché sono stati presentati due lungometraggi in cui l’acqua è nuovamente dominante: nell’algido ma ben realizzato dramma polacco “Floating Skyscrapers” (“Grattacieli galleggianti”) di Tomasz Wasilewski il taciturno Kuba (Mateusz Banasiuk) è un giovane atletico appassionato di nuoto e fidanzato senza slancio con la bionda Sylwia (Marta Nieradkiewicz) in un quartiere ipercementificato nei sobborghi di Varsavia. Sottilmente inquieto, Kuba sembra ritrovare pace interiore e armonia con l’ambiente circostante solo durante le lunghe e solitarie sessioni in piscina. Quando conosce il tonico Michal (Bartosz Gelner) viene travolto da un’attrazione erotica che non riesce a decodificare e rischia di compromettere il rapporto con Sylwia, la quale a sua volta conosce Michal intuendo il legame più che amicale instaurato con Kuba. A complicare la situazione contribuiscono il peggioramento delle prestazioni in acqua di Kuba e le intrusioni dell’invadente madre Ewa (Katarzyna Herman).
Tipico film d’autore d’atmosfera, dal ritmo pacato e insinuante, giocato sulla rappresentazione schietta di volti e corpi nudi palpitanti in primo piano (e una scena di sesso esplicito etero, un cunnilingus francamente non necessario), contrapposta all’inflessibilità delle norme sociali e di un contesto urbano irrigidito anche architettonicamente, vanta un indiscutibile pregio: i guizzi espressivi dei validi protagonisti, in grado di far implodere le emozioni con un battito di ciglia o infiammarsi in baci appassionati all’aria aperta, inattesi aneliti di libertà. Ma l’amore passa e va come l’acqua corrente? Qui il finale è tragico.
Anche nell’argentino minimalista “Hawaii” di Marco Berger le lunghe immersioni in una palude stagnante rappresentano una riconciliazione con l’elemento naturale e una rilassante tregua dalle incombenze quotidiane. Al contrario del polacco, però, il messaggio è di ottimista speranza nel futuro. Richiede molta pazienza, questo nuovo lavoro del giovane regista argentino già Teddy Award per il sensibile “Ausente”, rivelatosi per un certo talento nel rendere sul grande schermo, senza clamore ma con accorata complicità, il complesso ventaglio dei tormenti adolescenziali. Il solitario Eugenio (Manuel Vignau) ritrova un amico d’infanzia, il bel vagabondo Martin (Mateo Chiarino) e gli offre un lavoretto estivo che consiste nel mettere in ordine la sua vasta magione immersa nel verde. Per circa un’ora e mezza i due si osservano, si sfiorano, giocano insieme, si studiano, coltivano un rapporto di laconica amicizia che sfocia in attrazione ma sembra spaventare Eugenio (il bacio atteso arriva dopo circa 85 minuti di film). Lo spettatore viene appagato negli ultimi venti minuti, quando finalmente ha una sua compiuta evoluzione il rapporto tra i due protagonisti, complice l’arrivo del fratello di Eugenio, desideroso di comprendere il ruolo del nuovo arrivato. “Volevo lavorare con i condizionamenti sociali ma incorniciati in una love story – spiega Berger – come un classico racconto di lotta di classe ma da una prospettiva contemporanea. Mi affascinavano le dinamiche di relazione fra chi si trova nella vita in una posizione privilegiata e chi non ha alcun aiuto, per tratteggiare il gioco crudele che la società impone e come viene gestito da entrambe le parti. Ho continuato a lavorare da un punto di vista personale, usando come personaggi principali due uomini”.
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