rf1Ogni volta che vado dal mio parrucchiere non ho mai ben in mente il taglio che voglio farmi. Come sa chiunque sia abituato a farsi tagliare i capelli da un professionista, andare dal parrucchiere è come finire in un forum dove però l’ordine del giorno non è mai prefissato. Non so esattamente come sia iniziato il discorso quella mattina perché il rumore di 3 phon tirati al massimo possono in effetti creare un piccolo problema di comprensione, ma quando si sono spenti ho iniziato a sentire che la discussione che stava montando riguardava la necessità o meno di dichiarare la propria omosessualità. Che ci crediate o no, il mio parrucchiere è gay ed è convinto del fatto che fare "outing" non sia necessario e sebbene per un istante mi fosse venuto in mente non solo di specificare che si dice "coming out" affermandone inoltre il valore politico, mi sono guardato bene dal contraddirlo (non è mai una cosa saggia farlo quando si discute con qualcuno che brandisce un paio di forbici affilate).
Sia che a dirlo siamo noi, sia che ci sputtani qualcun altro o che sia tanto palese da rendere inutile ogni ulteriore dichiarazione (questa era la motivazione del riserbo del mio coiffeur) io posso affermare con una certa soddisfazione di aver vissute tutte e tre le forme della "rivelazione", e tutte con i miei familiari.
"Coming out". 17 anni, prossimo alla maturità, il primo fidanzato e la convinzione che il mondo fosse ai miei piedi. Decido di dichiararmi a mamma, convinto che sarebbe stata la più facile a cui dirlo. La chiamai, la feci sedere, controllai che le finestre fossero sprangate, che ci fosse a portata di mano una confezione di fazzoletti di carta e cominciai un racconto che partiva più o meno da Platone e la storia delle mezze mele, per passare lungo la cultura romana, Michelangelo, Oscar Wilde e Pertini (lo so, probabilmente non era gay ma vista l’ammirazione che mia madre nutriva per il nostro ex presidente lo inclusi nella sfilza di "padrini" che credevo potessero aiutarla ad accettare meglio la cosa). Quando dopo una buona mezz’ora arrivai a dirle: "mamma sono gay", mi sentii sollevato come dopo la consegna di un compito in classe quando dici: "come va va, io quello che dovevo fare l’ho fatto". Al netto di un paio di giorni in cui mia madre versò in uno stato catatonico post traumatico, qualche pianto e le domande di rito "dove ho sbagliato?" ("da nessuna parte, è così e basta") e "ma sei sicuro?" (a giudicare da quello che facevo con il mio fidanzato di allora, direi di sì), posso affermare che lei la prese bene.
"Outing". Questa volta avevo 25 anni. Stavo per andare a vivere solo. Ero sempre fidanzato ma con un altro ragazzo. Ultima cena prima del trasloco. Io, mia madre e mio fratello. "Senti io lo so che stai con Roberto e che sei gay". Mio fratello è sempre stato piuttosto diretto, per così dire. Nonostante fossimo solo noi e mia madre lo sapesse già da anni mi sentii come se qualcuno mi avesse strappato i vestiti di dosso lasciandomi nudo e sebbene mio fratello lo avesse fatto per mostrarmi la sua assoluta tranquillità nell’accettare la cosa, credo che sia questa la sensazione di chi sente dichiarare la propria omosessualità per bocca altrui.
E poi c’è stata la terza "ipotesi", quella suffragata dal mio parrucchiere: l’astensione da ogni tipo di dichiarazione. Anche questa scelta l’ho sperimentata con un mio familiare: mio padre. A lui non l’ho mai detto sebbene non abbia mai mentito né inventato fidanzate inesistenti. Lui, molto semplicemente, non voleva sapere, ed è sempre stato estremamente accorto a non chiedere mai cose che potessero scatenare risposte chiare e dirette. Lo sapeva e basta. Da sempre. Del resto dai 4 ai 17 anni era lui che mi accompagnava sempre per palestre e credo per questo gli sia bastato mettere a confronto l’impegno e la dedizione differentemente profuse durante gli allenamenti di judo rispetto a quelli di pattinaggio artistico sul ghiaccio per farlo arrivare a capire tutto, senza chiedere mai nulla.
di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti
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