Il dibattito su famiglia tradizionale e famiglia queer ce lo portiamo dietro da un bel po’. Nella velocità della comunicazione sui social, dove parole complesse diventano tutte ‘ovvie’ e ‘pop’, anche un termine come queer si fa interscambiabile: nel migliore dei casi avvicinerà chi non ne ha mai sentito parlare a concetti e riflessioni nel 2024 ancora non contemplate. Nel peggiore ‘appiattirà’ un concetto stratificato e complesso, rendendolo una parolina come altre.
A rendere ‘familiare’ la ‘famiglia queer’ nei media è stata l’anno scorso Michela Murgia, l’intellettuale, scrittrice, e attivista che dopo la diagnosi di un carcinoma renale al quarto stadio, lasciò un testamento alla sua famiglia grande, grandissima: non c’era solo il marito Lorenzo Terenzi, ma anche le scrittrici Chiara Valerio e Chiara Tagliaferri, il cantante lirico Francesco Leone, l’attivista Michele Anghilleri.
Il matrimonio con Terenzi per Murgia era una ‘formalità’, una convenzione da mettere in pratica per fare alcune cose che altrimenti lo Stato non ti permette. Ma quello che contava davvero nella famiglia di Murgia erano gli affetti svincolati da contratti o legami di sangue, quelli uniti dagli interessi, le passioni, e la complicità che va ben oltre ruoli come marito, moglie, figlia, fratello, o nipote. Insomma, la famiglia queer era quella dellə amicə, colleghə, e tutte quelle figure che ‘tradizionalmente’ non ci riconoscono come famiglia.
Un concetto tornato urgente anche nel 2020, quando durante la pandemia globale del Covid le persone potevano spostarsi solo tra i cosiddetti ‘congiunti’. Durante un’emergenza sanitaria, il peso della famiglia tradizionale si è sentito tutto: cosa succedeva se non ce l’avevi il ‘congiunto’? O se ce l’avevi, ma ti aveva cacciato da casa? Che succedeva quando il congiunto comprometteva la tua sicurezza? Le normative furono un brutale reminder che lo Stato le “altre famiglie” non le contempla: in particolare quelle LGBTQIA+ dove ‘fratello’ o ‘sorella’ non significa portare lo stesso cognome ma condividere un rapporto di cura reciproco, supporto, e vicinanza che ti tutela e fortifica lì dove i legami di sangue non fanno.
La questione riflette un dato reale: nel 2023 almeno il 46% dei giovani considera anche lə amicə con cui convive parte della famiglia. Un discorso simile quest’anno l’ha fatto pure la presentatrice Victoria Cabello, dicendo a Vanity Fair che una ‘queer family’ lei ce l’ha da sempre avuta, composta da amici e autori gay con cui ha coltivato rapporti negli anni. La faccenda torna a cadenza regolare anche ogni Dicembre davanti il bivio delle feste natalizie, tra chi si ritrova a passarle insieme alla famiglia ‘sanguinea’ (al costo di rimetterci la salute mentale) o la chosen family che si è costruitə. E spesso, anche poter fare quella scelta è un privilegio.
Ma alla luce di tutto questo, basta definirsi ‘queer’ per essere una famiglia queer? Può essere applicabile su chiunque non rispecchia quel modello ‘tradizionale’, o si rischia l’effetto contrario: dove la parola ‘queer’ insieme a tante altre, viene appiccicata un po’ ovunque senza la messa in discussione politica? Soprattutto, che ruolo hanno le identità e soggettività che ne fanno parte?
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Se nel mondo ideale ognunə si definisce come vuole senza stare sindacare come e perché, come dicevamo prima certe parole non sono interscambiabili (o se lo sono, necessitano un’analisi più stratificata, anche confutandole a seconda dei casi). Come dice bene l’attivista lesbofemminista e intersezionale, Isabella Borrelli (qui la nostra intervista) definirsi ‘queer’ è una forma di pratica e posizionamento politico e “non basta che singole identità si dichiarino queer per giustificare la sussunzione della famiglia queer: perché queer è pratica politica”.
Seppur anche le persone etero e cisgender possono ribaltare il modello ” mamma, papà, e figli*” – tra genitori single, nonni che fanno da genitori, e relazioni non monogame –il ruolo dei corpi è centrale: corpi non conformi che sovvertono quel sistema pre-impostato lottando quotidianamente. Come scrive Borrelli su Aut Magazine citando Judith Butler nel 1990, la famiglia queer “evade dal regime di sorveglianza-famiglia innanzitutto col corpo, smettendo di riprodursi, mestruando o scegliere di non mestruare più o perdere solo poche gocce come una ferita aperta, abortendo, facendo sesso con più persone, modificandolo, non facendo sesso, affermandolo, scavando trincee e facendo esplodere costrutti”.
Se ognunə ha il diritto di costruire e decostruire il proprio nucleo famigliare come ritiene idoneo, farlo restando e adattandosi al sistema dominante, e portando con sé anche tutti i privilegi delle persone etero-cis, non può essere considerato un vero atto politico, ma al contrario, assomiglia ad un’involontaria appropriazione della terminologia ‘queer’, che non nel condivide complessità quotidiane e sistemiche. Come scrive sempre Borrelli: “Non possiamo fare il lavoro al posto vostro”.
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Cioè non ci si può definire queer se non si è letta Butler?