“Questo Pride non è solo sull’amore”: Intervista a Isabella Borrelli, attivista lesbofemminista

L'attivista lesbofemminista ci parla del suo contributo al Roma Pride, del suo alter-ego drag king, e di un orgoglio che va ben oltre "Love is Love".

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7 min. di lettura

Cosa vuol dire provare orgoglio?
Anche questo mese di Giugno, più che mai, ci battiamo contro un sistema che non ci tutela e vorrebbe costantemente ai margini della società. Quali bias possiamo ancora mettere in discussione noi persone della comunità? Quali stereotipi abbiamo assorbito, e siamo ancora in tempo di smantellare, partendo dall’interno? Durante la nostra chiacchierata, Isabella Borrelli cerca di rispondere a queste domande. Senza puntare il dito o autoflaggellarci, ma con l’umanità e la spontaneità di una conversazione amichevole e libera da censure, quella di una persona queer che ha imparato a scoprirsi, celebrarsi, e sa dove indirizzare le sue energie.

Classe 1989, Isabella Borrelli è un’attivista lesbofemminista e intersezionale. Cresciuta nella provincia di Salerno ma a Roma da più di dieci anni, è stata eletta tra le 140 femministe più influenti del 2019 da Ladynomics, tra il 2019 e il 2020 tra le 100 donne che stanno cambiando l’Italia per Startup Italia, e tra le 150 donne da seguire su temi di innovazione digitale. Nel 2020 ha fondato il team Decretiamo Parità per avanzare una proposta di emendamento dal decreto c.d. Rilancio in materia di congedo parentale e ha partecipato al gruppo Stati Generali Italiani dell’Inclusione per Global Inclusion.

Più che attiva anche sui social, Isabella è inoltre parte del team di Latte Fresco, serata LGBTQIA+ romana presso Largo Venue, affiancata dall’amico e fata madrina Francesco Pierri, in arte Cristina Prenestina, con cui alterna spettacoli di drag king e stand up comedy. Con il Roma Pride alle porte (questo sabato 11 giugno), Isabella ha fatto parte della Pride Croisette dove ha avuto modo di sottolineare i punti fondamentali del suo lavoro d’attivista, in un percorso di autodeterminazione e divulgazione in costante crescita.

Ci ho parlato per discutere di questi temi e molto altro.

 

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Com’è stata questa esperienza con il Pride Croisette e cos’ha significato per te?

Per me è stato importantissimo. Roma è ormai la mia città, ed essere scelta tra le persone a salire sul palco per la Pride Croisette, mi ha reso molto felice e non faccio altro che ringraziare il Roma Pride e Cristina Prenestina che mi hanno dato questa possibilità. È davvero un orgoglio poter avere uno spazio così importante, che ho sempre abitato da spettatrice. Un tempo si chiamava Gay Croisette, ma quel luogo ha significato moltissimo per me quando ero ragazzina: è stato uno dei primi posti in cui non mi sono sentita sola, dove ho conosciuto tante persone della comunità e non solo, e ripreso quella felicità che spesso nella narrazione mediatica alle persone LGBTQIA+ viene spesso negata. Ho cercato di utilizzare questo spazio per portare le mie tematiche e dare maggiore visibilità alle donne lesbiche e bisessuali che più volte, anche in questi ambienti, sono invisivibilizzate. Ho invitato attiviste, lesbofemministe, persone che lavorano sul territorio che stimo moltissimo e poter discutere insieme a loro della “L word”.

Secondo te perché ancora nel 2022 manca un’adeguata rappresentazione lesbica e quali gaps culturali vanno colmati anche all’interno della comunità?

Penso che paradossalmente la lettera L, nonostante sia la prima della sigla, è tra quelle meno rappresentate. In Italia abbiamo vissuto il separatismo lesbico anche come metodologia di lavoro, e questo forse ha comportato un certo distaccamento,  insieme ad un’intersezionalità dell’invisibilizzazione: innanzitutto in quanto donne all’interno della società patriarcale e poi anche in quanto donne lesbiche e bisessuali.

Storicamente è stata visibile a lungo soprattuto una lettera dell’acronimo, ovvero gli uomini omosessuali cisgender. Con il tempo questo è cambiato, si è dato spazio a tutte le altre soggettività, ma credo ci sia ancora molto cammino da fare anche per quanto l’oggettificazione e gli stereotipi cuciti intorno alle donne lesbiche e bisessuali, ma anche discriminazioni talvolta all’interno della comunità stessa. Penso sia fondamentale non solo che vengano rappresentate correttamente, ma che abbiano sempre più spazio e voce all’interno di ruoli di gestione, dell’associazionismo, sui palchi, per arricchire sempre di più un dialogo che dovrebbe accogliere più soggettività possibili.

A tal proposito dei passi in avanti, tu hai scritto un post su Instagram intitolato “Mai noi” che non è assolutamente una critica ad Elodie (madrina del Roma Pride) quanto una riflessione sul ruolo delle icone nella nostra comunità. Mi ha colpito molto la frase: “Non voglio essere più l’interpretazione e il sottotesto. Voglio essere il titolo di un testo”.

Ovviamente, io adoro Elodie, e la stimo moltissimo soprattutto artisticamente. Il ruolo della madrina o del padrino nel Pride era storicamente quello di un alleat*, che facesse da ponte tra la comunità LGBTQIA+ e la società. Nel post mi chiedevo: abbiamo ancora bisogno costantemente di una persona non parte della comunità a rappresentarci? Secondo me è arrivato anche il momento di dimettere questo ruolo e rivendicarlo per noi. Si parla tantissimo di rappresentazione e riprendere spazi, e poi noi nel nostro stesso luogo non riusciamo ad essere titolari della nostra voce. Per questo penso che il ruolo della madrina o del padrino ha fatto un po’ il suo tempo, così come quello dell’icona.

Abbiamo sempre eletto artisti – eterosessuali e cisgender – come icone LGBTQIA+. Persone anche importanti, come Cher o Raffaella Carrà – solo per citarne due che si sono poi effettivamente spese durante la loro carriera per portare avanti determinate istanze della comunità. Ma in generale io credo che questo momento iconografico sia arrivato un po’ ad un momento di svolta, e dovemmo cominciare ad essere noi i portatori e portatrici delle nostre istanze. Per tutte queste icone etero e cis che hanno dominato il mondo della musica, tante altre persone LGBTQIA+ non hanno mai fatto coming out apertamente.  E per quanto in generale rimanga una scelta personale e non dovuta, io penso che una persona con una tale visibilità ha un po’ la responsabilità di utilizzare questo privilegio per l’importanza della rappresentazione. Mi chiedo cosa avrebbe significato per una piccola Isabella avere una cantante donna cantare apertamente del suo amore verso un’altra donna. Avrebbe aperto la mente a me, ma anche ai miei genitori che quando feci coming out si preoccuparono subito che sarei rimasta emarginata. Ecco, se avessimo sempre più cariche pubbliche e politiche, artisti, musicisti, e cantanti apertamente parte della comunità, immagino all’impatto che avrebbero su genitori come i miei. Per questo penso che dovremmo lavorare sulla nostra rappresentazione, sul prendere noi la parola, ed esserne titolari.

Parlando proprio di persone attive all’interno della comunità, attive sia politicamente che artisticamente, ti andrebbe di raccontarmi del tuo rapporto lavorativo e personale insieme a Francesco Pierri in arte Cristina Prenestina?

Francesco per me è una persona importantissima. L’altro giorno scherzava che era il nostro anniversario di quando ci siamo conosciute: è una persona con cui sono entrata immediatamente in sintonia, è un carissimo amico, compagno di lotta, e anche mamma drag di Mikey Salerno, il mio personaggio drag king, ed è stata proprio Cristina Prenestina a spronarmi a salire sul palco. Per questo gli sono legata in maniera triplice. È una persona straordinaria, un’attivista di grandissima sensibilità. Ha un progetto molto bello di lettura delle favole drag all’interno delle scuole, che rompe tabù e stereotipi  o bias cognitivi sulla comunità o in generale su chi è diverso. Insieme lavoriamo nel mondo dell’intrattenimento LGBTQIA+ a Roma, presso Latte Fresco, e abbiamo messo su una vera famiglia. La chiamiamo la famiglia Prenestina, e c’è un rapporto di grande amore tra tutt* noi, e penso che il pubblico riesca a percepirlo. Il nostro è un intrattenimento sempre molto politico, e questa è un’impostazione che Francesco si impegna a mantenere con grande forza: intrattenere e al contempo mandare messaggi, ricordando come anche i nostri corpi hanno un potere politico. È qualcosa che viene fatto con una leggerezza e professionalità che io raramente ho visto.

 

intervista isabella Borrelli
@isabella_borrelli

Chi è Mickey Salerno, e come ti sei approcciata al mondo del drag king?

Per me è stata una grande esperienza formativa. Io sperimento molto con la mia espressione di genere, sono una lesbian-femme ma mi prendono in giro perché a tratti sembro un ragazzino gay twink, quasi uno sbarbatello dei kawaii giapponesi. Mickey mi aiuta ad esplorare Isabella in modo ancora più profondo: come Cristina fa di cognome Prenestina (perché noi ci troviamo esattamente sulla strada Prenestina di Roma), Mickey fa di cognome Salerno, giocando un po’ con le mie origini. Io non ho un accento salernitano perché spesso per i miei interventi pubblici faccio molto lavoro di dizione, e quando ero ragazzina non amavo avere una cadenza così marcata. Mickey, invece, ha un accento fortissimo e parla a volte in dialetto, qualcosa che Isabella non fa mai.

Poi con Mickey faccio stand-up comedy, ironizzando sul mondo etero cis e le dinamiche del mondo LGBTQIA+. Tutti i pezzi che scrivo per le performance sono momenti di vita vera che ho vissuto. Paradossalmente le cose più semplici e lineari di Mickey sono quelle inventate, mentre le più assurde sono reali. È un momento per me di psicomagia molto catartico, dove esorcizzo un’adolescenza abbastanza dura, tra rifiuto e la difficoltà di trovare qualcun*, insieme alle pressioni della provincia del Sud Italia. Vedere le persone ridere su cose che un tempo non mi facevano ridere per niente, per me è bellissimo. L’abbigliamento di Mickey, inoltre, proviene dal mio armadio, in un modo che Isabella non indosserebbe mai: elaboro gli outfit sullo stereotipo del tipico uomo salernitano. Ho notato che alcune persone quando sanno che fai drag king ti chiedono se sei una persona trans, e io rispondo sempre: chi lo sa?

Inoltre, un altro dono che mi ha dato Mickey è stato quando molte persone mi hanno scritto dopo le performance e detto che assomiglio moltissimo a mio padre, che oggi non c’è più. Per me è stata un’emozione incredibile.

 

 

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Un altro post che hai scritto che credo sia fondamentale si intitola This is not about love. Anche questo è un argomento magari per alcun* ovvio, ma tra i media mainstream ancora difficile. Perché questo Pride non è solo sull’amore? 

Quando faccio divulgazione cerco di prendere anche luoghi comuni o frasi che vengono con le migliori intenzioni: “Love is love” è uno slogan empatico per aggirare i diritti LGBTQIA+ nel calderone del “siamo tuttə uguali e che l’amore vince sempre”. Ma è un discorso pericoloso per più ragioni: le tutele non hanno niente a che vedere con l’amore. Io posso non amare nessuno, non essere in una relazione, ed essere ugualmente tutelata dal mio Stato. In secondo luogo, il discorso dell’uguaglianza non regge perché non siamo tutt* uguali. Siamo tutte persone diverse, e piuttosto dovremmo avere pari opportunità e accessi, ed essere equi. Ma equità ed uguaglianza non sono la stessa cosa. 

Inoltre, la romanticizzazione della comunità omosessuale è un modo per addolcire la pillola, e in qualche modo di “normalizzare” e accettare la comunità LGBTQIA+. Ma l’accettazione presuppone che ci sia un gruppo che giudica se un altro gruppo è degno oppure no, e la normalizzazione crea un appiattimento generale. Perché c’è bisogno di raccontare questa storia così rassicurante? La comunità LGBTQIA+ ha sempre messo in discussione i parametri dell’amore eteronormato e borghese, e dovremmo continuare ad avere questa forza rivoluzionaria.

I nostri diritti e tutele non dovrebbero essere appiattite sul ricatto di questa emotività un po’ infantile dove “alla fine ci amiamo tuttə”.

Io voglio tutti i miei diritti e tutele, e non solo quello di amare.

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