C’è più dolore che gloria nel nuovo, affascinante film di Pedro Almodóvar che si intitola appunto Dolor y Gloria, il migliore degli ultimi anni: nulla a che fare col tiepido Julieta e con la barzelletta tirata per le lunghe Gli Amanti Passeggeri. Non è un capolavoro, però: non arriva alla completezza commovente di Parla con lei o di Tutto su mia madre anche se il suo protagonista, il regista gay in crisi d’ispirazione Salvador Mallo, interpretato da un dolente Antonio Banderas, resterà nella memoria. Come già saprete, Salvador ripercorre la sua vita in una sorta di 8 ½ testamentario: dall’infanzia negli anni Sessanta quando emigrò nel paesino di Paterna in provincia di Valencia con l’amorevole madre (una vibrante Penelope Cruz da giovane, la decana Julieta Serrano da anziana) in una ‘cueva’, una grotta bianca dove abitavano i più poveri – è la parte del film più sensuale e magica – ai suoi amori nella scatenata movida madrilena (“Era il 1981 e Madrid era nostra”). I ricordi si intersecano alla realtà odierna: per la presentazione di una pellicola restaurata di Mallo dal titolo ‘Sabor’, rincontra un attore con cui aveva pessimi rapporti, Alberto Crespo (Asier Etxeandia), che lo inizia a fumare eroina. Ma rivede anche l’amore di una vita, Federico (il fascinoso Leonardo Sbaraglia di Plata Quemada), con cui rivive una notte di struggenti memorie evocate.
Per lo spettatore resta il gioco di capire quanto ci sia di autobiografico e quanto di inventato (“odio l’autofiction” dice la madre anziana): la parte insistita sulla droga è stata categoricamente smentita da Almodóvar. Ma si capisce che la creazione artistica si nutre inevitabilmente di vita reale e viceversa, al punto che l’empasse di Salvador sembra dovuto al fatto che né il passato né il presente sembrano più interessargli, travolto com’è da una serie impressionante di dolori fisici resi sullo schermo attraverso un buffo cortometraggio d’animazione.
La malinconia diffusa fa a pugni con tipici stilemi almodovariani quali le scenografie rosseggianti e la consueta messa in scena che privilegia la vitalità a tutti i costi.
Straordinaria l’interpretazione di Antonio Banderas molto in parte anche perché lui stesso è reduce da un profondo periodo di sofferenza fisica (ha avuto un infarto nel 2017 e pare che abbia subito tre operazioni a cuore aperto) per cui supponiamo che la cicatrice che si vede a inizio film sia proprio quella vera.
Ma è soprattutto il cinema il varco per tornare sereni: “Il cinema mi ha salvato” dice a un certo punto il protagonista, consapevole che la sua depressione avrebbe potuto causare danni maggiori se non ci fosse stata la catarsi del realizzare film. Così uno schermo bianco rievoca ricordi indelebili esattamente come la locandina di Sabor diventata un quadro a casa di Alberto Crespo. Cinema come salvezza, come bisogno viscerale e primario, come primo desiderio esattamente alla stregua dello svenimento di Salvador da piccolo alla visione del bell’imbianchino completamente nudo (è una delle scene più erotiche dell’intero cinema almodovariano).
E c’è anche un po’ d’Italia, grazie all’ipnotica – e splendida – canzone di Mina ‘Come sinfonia’ che irrora di suggestione alcune scene del film.
Dolor y gloria è in corsa al Festival di Cannes per la Palma d’Oro, l’unico premio maggiore che Almodóvar non ha mai vinto, e sarebbe una bella doppietta anche il premio d’interpretazione ad Antonio Banderas.
Da vedere assolutamente.
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