“Aiutati che Dio ti aiuta” ha sempre detto mia madre.
Una frase ripetuta a cadenza regolare, ogni volta che il cuore mi batteva nel petto più del consentito, ogni volta che la mia testa cominciava a girare su sé stessa e a perdersi in una spirale infinita, ogni volta che mi risvegliavo con la tachicardia. Provvedi davanti il problema, prendi il toro per le corna, agisci sul pratico, e vedrai che qualcuno dall’alto se ne accorgerà, e ti allungherà la mano per risollevarti. Ma prima fallo da solo, dimostragli che sei bravo. È una frase che mi è stata ripetuta così tante volte, da autoconvincermi che ogni volta che mi perdevo dentro la mia mente, la colpa era soprattutto mia. Era un’esagerazione, una relazione spropositata che avrei potuto tenere a bada se solo fossi stato capace: pensa positivo, domani è un altro giorno, dopo la pioggia arriva sempre l’arcobaleno. Mi sono così abituato a queste frasi da non riuscire più a distinguere le mie emozioni, filtrate da un giudizio più grande, mascherate sotto un sorriso stampato in faccia, che per quanto finto, mi conferiva la dignità per stare al mondo. La mia tristezza ha cominciato a vergognarsi, ma non se n’è mai andata.
Nella stessa epoca in cui abbiamo iniziato a rinominare ogni comportamento distruttivo e asfissiante come “tossico”, quella di mia madre viene chiamata ‘positività tossica’: “Il presupposto, sia da noi stessi che dagli altri, che nonostante il dolore o la situazione difficile che una persona sta vivendo, dovrebbero comunque mantenere un atteggiamento positivo – o in altre parole – delle positive vibes” spiega Dr. Jaime Zuckerman, psicologo della Pennsylvania, specializzato in disturbi d’ansia. Chiariamoci, non penso che le persone come mia madre vivono sconnesse dalla realtà: non c’è nulla di male nel mantenere un atteggiamento positivo, che difatti può anche essere d’aiuto. Per questo preferisco risparmiarmi il termine “tossico” – ormai così generico da demonizzare ogni concetto e appiattire ogni riflessione – e concentrarmi sull’effetto collaterale di questa tendenza, senza l’urgenza di etichettarla. Quello di mia madre è un mindset che ha derive infinite: muore una persona cara, e ti rispondono che tutto “accade per una ragione”. Ti spezzano il cuore, e ti dicono di ricordare “che c’è sempre chi sta peggio”. Stai male, ma la felicità è una scelta. Piuttosto che effettivamente alleviare il dolore, lo appesantisce di un nuovo carico: la pressione di apparire felici. “La pressione di apparire okay invalida il range di emozioni che tutti proviamo” spiega a Healthline, Carolyn Karoll, psicoterapeuta di Baltimora: “Può darti l’impressione di essere difettoso quando ti senti stressato, interiorizzando dentro di te la convinzione di essere debole e inadeguato.” In sostanza, Karoll evidenzia come giudicare le emozioni degli altri, ne genera altre che non fanno altro che peggiorare la situazione.
“Non voglio essere compatito” è un’altra frase che ho sentito ripetere ad oltranza. fino a ripeterla anche io. La compassione è sempre andata a braccetto con la pena: se percepisco e riconosco insieme a te la tua tristezza, invece che alleviarla genero disprezzo. È qualcosa che – complice i consigli di mia madre – mi ha convinto che in questi casi va trovata una soluzione rapida: ti fornisco un consiglio, ti faccio sapere come la penso, ti dico io cosa fare. Un atto d’onnipotenza nel tentativo di proiettarci nella mente dell’altro e veicolarla secondo uno schema preciso. Come se la testa delle persone fosse interscambiabile, telecomandata verso la guarigione aggiustando i fili o sbattendola più forte. Un modus operandi che cade a cecio con questi ultimi anni di pandemia: durante la tragedia di Marzo 2020, il primo consiglio che ci veniva dato era di restare a casa ed essere produttivi. Fuori la finestra c’è il panico, ma tu prendi il meglio di questo momento, impara a cucinare, dipingi, leggi più libri possibili, allenati, o ancora meglio, lavora più di prima adesso che hai tempo. L’ho fatto anche io: ho confezionato ogni emozione scomoda in compartimenti stagni, anestetizzandola nel tentativo di arrivare a fino giornata senza tuffarmi giù dal balcone, a tal punto da dimenticare come mi sentissi in quel momento. Convinto di reagire nella più consona e adeguata, mi sentivo fiero di me. Rievocando i consigli di mia madre, stavo reagendo. Finché un giorno – quando la situazione generale iniziò ad ammorbirdisi di più, proprio quando potevamo permetterci di mettere il muso fuori casa – andai in cortocircuito e crollai.
Per quanto il modus operandi non è risultato davvero vincente, l’urgenza di controllare la tristezza prima di sentirla è spesso più forte. Restare in silenzio davanti la nostra angoscia e quella degli altri, ci fa sentire impotenti e inutili, incapaci di maneggiare quella situazione. Ci spaventa l’ipotesi che quell’emozione, così poco familiare e fuori posto, occupi la scena con la sua presenza ingombrante, facendoci perdere il controllo. Se non posso fornire consigli o trovare una soluzione, cosa posso fare? “Non possiamo, in quanto esseri umani, semplicemente scegliere le emozioni che vogliamo avere.” spiega Zuckerman “Semplicemente non funziona così. Sentire le nostre emozioni, dolorose o meno, ci permette di restare presenti“. A questo punto, ho cominciato a rivalutare la compassione. Antipatica e scomoda, ma almeno mi mette in posizione d’ascolto per comprendere questa tristezza. Perché se chiusa in casa, la tristezza ulula come un segugio, scalciando le zampe sulla porta d’ingresso per uscire: una volta all’aria aperta, la tristezza smette di ululare, e cammina al mio fianco senza pestarmi i piedi, viene a prendersi da bere con me senza farmi andare di traverso il cocktail, e posso iniziare ad osservarla. Trovare spazio per la tristezza non mi fa più sentire un’automa, ma mi permette di ricominciare a respirare a pieni polmoni, senza ridurre tutto quello che provo ad una frase motivazionale, così piccola e stretto da farmi mancare l’aria. Mi fa sentire reale e presente, e quando non sento più la pressione di apparire come dovrei, posso finalmente aiutarmi.
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