Il genere oltre l’ostacolo: 9 transgender alle Olimpiadi di Tokyo. Anche l’italiana Valentina Petrillo

A raggiungere il primato storico delle Olimpiadi di Tokyo c’è anche la nostra Valentina Petrillo. L'abbiamo intervistata, tra DDL Zan, transfobia e differenza di genere nello sport.

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Andraya Yearwood e Valentina Petrillo
8 min. di lettura

Le Olimpiadi di Tokyo non sono ancora iniziate e hanno già un record. Per la prima volta nella storia parteciperanno atleti dichiaratamente transgender.

Nel 1976 c’era stato il caso di Caitlyn Jenner, vincitrice di una medaglia d’oro nel decathlon. Ma il suo coming out è arrivato solo negli ultimi anni..

Nessun atleta era mai uscito allo scoperto prima di gareggiare. Anche perché gli atleti transgender non erano contemplati. È soltanto nel 2015 che il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha modificato le linee guida per regolarne la partecipazione.

Secondo il CIO, gli atleti che transitano da femmina a maschio sono ammessi a gareggiare con gli uomini senza alcune restrizione. Mentre coloro che transitano da maschio a femmina devono rispettare alcuni requisiti. Devono innanzitutto dichiarare di riconoscersi nel genere femminile (dichiarazione che non può essere cambiata per almeno 4 anni). Inoltre, devono dimostrare di avere, nell’arco di un certo periodo, livelli di testosterone al di sotto di 10 nanomoli per litro.

Le linee guida erano già in vigore per le Olimpiadi di Rio 2016, ma nessun atleta si era dichiarato in quell’occasione. Per le olimpiadi di Tokyo, invece, sono almeno nove gli atleti che si dichiarano transgender.

Laurel Hubbard, neozelandese, si è già qualificata per il sollevamento pesi, diventando così la prima atleta dichiaratamente transgender a partecipare alle Olimpiadi.

Anche Robyn Lambird, australiana, gareggerà per qualificarsi alle paraolimpiadi. E poi ci sono altri atleti a contendersi lo stesso primato: Tiffany Abreu (Brasile, pallavolo), Ness Murby (Canada, para-atletica) e Quinn (Canada, calcio).

Il Paese con più candidati transgender sono gli Stati Uniti, che si presentano con ben tre atlete: Chelsea Wolfe per le gare con biciletta BMX, e Nikki Hiltz e CeCè Telfer per l’atletica leggera.

“È importante per me farlo per questi ragazzi”, ha detto CeCè Telfer, 26 anni, al New York Times. “È importante per me farlo per la mia gente – che si tratti di donne, persone di colore, persone transgender, persone L.G.B.T.Q. – chiunque sia scrutinato e oppresso”.

Nonostante gli Stati Uniti siano il paese con più atleti transgender a proporsi per le Olimpiadi di Tokyo, la situazione degli atleti che soffrono di disforia di genere e seguono un percorso di transizione, in America, non è affatto idilliaca. Soprattutto per i più giovani. Circa il 40% dei giovani transgender americani dichiara di aver tentato il suicidio. A maggio 2021, sono state presentate almeno 30 proposte di legge contro le persone transgender nell’ambito sportivo (in particolare contro le donne transgender). Per non parlare poi del clima politico transfobico a cui si è assistito con l’ex presidente Trump.

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Changing the game, documentario su giovani atleti transgender in America

Negli Stati Uniti, le regole per la partecipazione dei ragazzi transgender nelle competizioni sportive variano da stato a stato, talvolta addirittura da college a college. Un recente documentario, “Changing the Game”, in onda su Hulu, racconta le storie di tre giovani atleti transgender e degli ostacoli sociali che incontrano quando gareggiano.

“È ingiusto, è così ingiusto!”, è lo sfogo di una spettatrice ad una gara di atletica che contesta la vittoria di Andraya Yearwood, 20 anni, atleta afro-americana e donna transgender. “Per decenni le donne hanno lottato per avere uguali diritti. Per poi essere buttati da regole folli che sono discriminatorie contro le donne!”. Da quando Andraya ha cominciato a gareggiare nella categoria femminile di commenti di questo tipo ne sente parecchi. “Gli altri hanno paura di parlare perché temono di essere accusati di discriminazione. Non sono discriminatori. Sta ridicolizzando lo sport femminile. Sta ridicolizzando i diritti delle donne”

Il documentario riporta anche le interviste fatte ai loro allenatori. “Definire ciò che è giusto è difficile – commenta l’allenatore di Andraya- . Ma penso che la cosa più importante da tenere presente è l’obiettivo più ampio. Quando parliamo di atletica leggera, la domanda è ‘Cosa vogliamo fare con questo sport?’ E, per me, la risposta è ‘insegnare lezioni di vita attraverso l’atletica’. Molti sono intrappolati dalle vittorie e dalle sconfitte. Vittorie e sconfitte sono importanti. Perché vittorie e sconfitte sono motivanti. Ma il mio ruolo, come allenatore, è quello di aiutare ogni studente a migliorare innanzitutto come persona, e poi come atleta, e dare a tutti l’opportunità di uscire e diventare una versione migliore di sé stessi”.

Nelle storie di atleti transgender, diventa difficile distinguere la competizione sportiva con la sfida che hanno affrontato con loro stessi. Le due sfide (quella con l’identità di genere e quella in pista) sembrano mescolarsi e alimentarsi tra loro.

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Andraya Yearwood, 20, atleta afro-americana transgender donna in Connecticut (usatoday)

“Non m’importa se qualcuno pensa che Andraya ha un vantaggio. È molto più di questo per lei”, dice la madre. “È importante. Voglio dire, stiamo parlando di vita o di morte. Mi spaventano le statistiche e i numeri che sono contro di lei”. In America, infatti, dal 2013 sono state uccise 303 persone transgender. E il 66% di loro erano donne afro-americane. “Se l’atletica leggera dà a questi ragazzi un’opportunità di essere e vivere quello che sono veramente, che diritto abbiamo di togliergliela? Significherebbe essere ingiusti. Anzi, molto più di ingiusti. Significherebbe essere crudeli”.

A raggiungere il primato storico delle Olimpiadi di Tokyo 2021, c’è anche l’italiana Valentina Petrillo.

Nata a Napoli all’inizio degli anni ’70, si appassiona allo sport sin da piccola. “Il mio sogno nasce da bambina, ed è quello di potermi esprimere nello sport che amo”, dichiara Valentina. “È un sogno che ho sin da piccola, dalle Olimpiadi dell’ ’80, quando vidi Mennea correre la finale dei 200 metri”.

A 14 anni le viene diagnosticata la maculopatia di Stardgardt, una malattia degenerativa che colpisce la parte centrale della retina, provocando la perdita del campo visivo e la distorsione delle immagini. Nonostante questo, Valentina continua a correre, prima nei campi da calcio, e poi in quelli di atletica. E vince.

Nel 2018 realizza i suoi record personali nella categoria maschile, per poi iniziare la terapia ormonale di transizione nel gennaio 2019. Nel settembre 2020 partecipa per la prima volta nella categoria femminile paralimpica T12 (una delle 3 categorie per ciechi e ipovedenti), ottenendo tre ori nei 100, 200 e 400 metri.

Durante i Campionati Europei di atletica paralimpica che si sono tenuti in Polonia all’inizio di giugno 2021, Valentina conquista il primato italiano nei 400 metri con 1’00”09.

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5 nanomoli, il documentario sulla storia di Valentina Petrillo (5nanomoli.it)

La sua storia sarà anche raccontata in un film documentario dal titolo “5 nanomoli – Il sogno olimpico di una donna trans”, in prossima uscita.

Le abbiamo fatto qualche domanda sulla sua passione per la corsa e su cosa significa intraprendere un percorso di transizione in Italia.

Cosa l’ha spinta di più a correre?

“La paura di me stessa, di accettare quella che poi si è manifestata solo definitivamente qualche anno fa. Ho sempre corso per fuggire da me stessa, dalle mie paure, dalle mie angosce. Quando ero piccola vivevo in un quartiere difficile di Napoli, dove era molto facile entrare in brutti giri. C’era un alto tasso di tossicodipendenza in quel periodo. Ed io vivevo in una strada dove c’era un gruppo di tossicodipendenti che si buttavano davanti ai miei occhi. Ogni volta che passavo di lì correvo e tenevo gli occhi chiusi”.

Che cosa significa essere un corridore ipovedente?

“Essere ipovedenti ed essere corridori significa non vedere bene la delimitazione della corsia e riuscire a vedere la linea d’arrivo in ritardo rispetto a tutti gli altri. Poi ci si abitua. Più o meno si sa com’è la curva. Ma è molto dura, soprattutto quando le righe non sono ben tracciate e soprattutto nella pista indoor che è più stretta. Per me correre è molto bello ma farlo in strada è pericoloso. Ricordo che nel 2019 mi sono rotta la caviglia perché non ho visto un tombino rotto e ci sono finita dentro”.

Qual è il regalo più bello che le dona la corsa? La velocità? Raggiungere il traguardo? La fatica? L’allenamento? La competizione?

“Adoro la corsa perché mi fa sentire uguale agli altri. Ed in questo caso parlo della mia disabilità. Quando corro mi sento me stessa. Mi sento libera. Mi sento bene. Ma non sono una da lunghe distanze. Adoro la felicità di sentire il vento nei capelli. Mi piace particolarmente la competizione, il momento della gara, perché è lì che si capisce e si mette in pratica tutto il lavoro fatto nell’allenamento. Gara per me è “festa”, mentre l’allenamento è “morte”. Ma si muore per rivivere. E ogni volta che si muore si vive più forti di prima”.

Che consiglio si sente di dare ai giovani ragazzi e ragazze che sperimentano la disforia di genere e che vogliono partecipare a competizioni sportive?

“Non mollate. Il primo anno, anno e mezzo sono molto pesanti. Quello che posso consigliare è di non mollare. Fate sport, perché aiuta anche la transizione. Fate sport, perché il corpo reagirà meglio alla terapia ormonale”.

Ha ancora senso la differenza di genere nello sport?

“Sì. La differenza tra uomo e donna esiste e nello sport deve esistere. L’uomo è più forte della donna e io lo testimonio, sia da uomo che da donna. Le mie prestazioni sono notevolmente calate. Ed è giusto che sia così. L’uomo resta comunque più forte. Infatti, non c’è record più performante di una donna rispetto a quello di un uomo. E quindi è giusto che ci sia la categorizzazione tra uomo e donna. E io mi sento assolutamente nella categoria femminile”.

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Valentina Petrillo in gara (Fispes)

Nella fase di transizione, si è sentita supportata da amici, parenti e istituzioni?

“Nella fase di transizione, che comunque continua, forse per tutta la vita, purtroppo devo considerare il fatto che ho perso gran parte delle mie amicizie. Ci sono state amicizie nuove, ma molte di quelle vecchie sono finite. In generale i parenti si sono allontanati. Ma quando ho acquisito una certa notorietà, sono tornati. Ci sono state nuove amicizie che mi hanno supportato nel morale. Ma quello che mi è mancato è stata un esempio simile al mio, di tipo sportivo. L’unica persona che, da questo punto di vista, mi è stata vicina è stata la dottorezza americana transgender Joanna Harper, che ha studiato e monitorato casi come il mio anche nel passato”.

Com’è il clima in Italia, oggi, nei confronti delle persone transgender?

“In generale è abbastanza buono. Purtroppo ci sono ancora discriminazioni in tutti gli ambienti. Ma devo dire che, per quanto mi riguarda, vivo una vita abbastanza tranquilla. Mentre nel campo sportivo subisco tanti attacchi. Addirittura messaggi e commenti molto pesanti che mi vengono inviati sui social media rispetto alla mia partecipazione ad alcune gare”.

Negli ultimi tempi si sta parlando molto del DDL Zan. Cosa si sente di dire a chi pensa che sia superfluo introdurre aggravanti per i crimini di odio commessi contro membri della comunità LGBTQ+?

“Sono a disposizione per far vivere loro una giornata come Valentina. Per far loro capire cosa significa essere guardati, essere giudicati, essere discriminati, per il solo fatto che, come persona trans, esisto e vivo. Tutto questo è assolutamente ingiusto. Anche perché ne va di mezzo anche mio figlio, il quale subisce tutto quello che vivo da quattro anni e mezzo a questa parte. Purtroppo credo che il DDL Zan non sia affatto superfluo, credo sia necessario introdurre un’aggravante”.

Cosa dovrebbero fare di più le istituzioni – a livello locale e nazionale – per facilitare i percorsi di transizione?

“Bisognerebbe semplicemente che le istituzioni ci riconoscano, che riconoscano la nostra esistenza come persone trans. Non siamo contemplate, siamo ai margini della società, come qualcosa da evitare. C’è grossa paura nei confronti di una persona transgender. C’è grosso terrore. È necessario che le istituzioni ci riconoscano attraverso delle leggi, come, ad esempio, il DDL Zan. Ma anche a livello di accesso alle medicalizzazioni. Fortunatamente dove vivo, in Emilia-Romagna, i servizi funzionano abbastanza bene, ma sono subordinati al riconoscimento della patologia della disforia di genere”.

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