Settimane fa Donatella Rettore diceva che ci sono i gay e poi le checche. Parafrasando, le checche sono quelle che fanno i pettegolezzi e lei non vuole vederle manco fuori casa. Quando Francesca Fagnani le ha fatto notare che quella è una generalizzazione bella grossa, che riguarda più o meno chiunque e non solo la comunità gay, Rettore comincia ad incartarsi su sé stessa per dire tutto e niente (se non che lei fr*cio vuole continuare a ripeterlo).
Il web è insorto, molti si sono incazzati, un’altra settimana, una nuova indignazione. Senza legittimare il discorso di Rettore, né tantomeno giustificarla o crocifiggerla su pubblica piazza, permettetemi di riformulare il concetto da capo.
Ci sono due stereotipi che accomunano la comunità gay dagli anni ’90 ad oggi: il migliore amico delle ragazze, quello con cui andare a fare shopping, confessarsi e dire tutto quello che non si può dire con i fidanzati etero. Sensibile, amato dai salotti televisivi, e accomodante. Ma il gay della porta accanto ha anche una nemesi che prende le sembianze di una liceale bionda e perfida, che ti squadra dalla testa ai piedi e si crede la prima della classe ovunque va. Alcuni amano chiamarla, Regina George.
Nel 2004 Mean Girls – pellicola diretta da Mark Waters e scritta da Tina Fey – entrò nell’olimpo dell’immaginario comune di ogni millennial dai quattordici anni in su. È un film che tre quarti della comunità queer ha visto e rivisto a ripetizione fino allo sfinimento, citandone le battute dalla mattina alla sera, assorbendo dialoghi, pose, e mood in ogni interazione quotidiana, dai social alla vita di tutti i giorni. Per chi avesse poca familiarità, Mean Girls racconta la storia Cady Heron (Lindsay Lohan) candida adolescente costretta a scontrarsi con le Barbie, trio di cheerleader più popolari della scuola North Shore: belle, ricche, e sulla bocca di chiunque, le Barbie (in originale The Plastics) devono sottostare all’ape regina che prende – naturalmente – il nome di Regina George (Rachel McAdams).
Regina si presenta per la prima volta, scortata tra le braccia dei quaterback, entrando da lì in poi nella memoria di Lindsay Lohan e i gay di tutto il pianeta. Vi diranno che Regina George non ha difetti, ha due borse di Fendi, una Lexus argentata, e si è assicurata i capelli per 10mila dollari. Vi diranno anche che Regina George non è la tipica egoista, traditrice, bastarda, ma molto peggio. Cosa accomuna Regina George e i maschi gay? Non si sa, resta il fatto che è diventata un pilastro, una reference culturale, e colonna portante delle nostre personalità.
Poco importa che in Mean Girls ci sia anche Damian, amico apertamente gay di Cady, che ci riserva alcune delle battute più iconiche dell’intera pellicola. Nessuno ha mai voluto essere Damian, perché nonostante fosse un personaggio sicuro di sé e intelligente, rimaneva ai margini della storia, la spalla comica delle protagoniste che non prendeva mai controllo della scena se non in funzione delle risate altrui. Damian, in un modo o nell’altro, rappresentava un po’ quello che siamo stati o che i media – nei primi anni duemila più che mai – ci hanno abituato ad essere: una versione monodimensionale di noi stessi, alla mercé del pubblico.
Al contrario, Regina George e le sue Barbie erano tutto quello che avremmo voluto essere, anche solo per un giorno : “Per i gay millennial [Mean Girls] è stato uno specchio dove riflettere quell’adolescenza glamour e perfida di cui siamo stati privati, sostituita dal dolore e la paura di attacchi omofobi nel cortile della scuola mentre cercavamo di comprendere la nostra sessualità” scrive Jesse Boland nel suo pezzo “Do All Gay Men Want to be Mean Girls?” per IN Magazine.
Alcuni gay si rapportano alla vita adulta come fossero i corridoi di un liceo americano, replicando quella fantasia incompiuta di essere le più popolari, muovendosi nel mondo a ritmo di battute crudeli e sguardi di sufficienza. Abbiamo passato tutta l’adolescenza sugli spalti, ma un giorno abbiamo scoperto di poter stare al centro del campo, di poter essere visti e riconosciuti: i media mainstream sono dalla nostra parte, i brand fanno a botte per stamparsi una bandiera arcobaleno a Giugno, e con tutte le problematiche del caso, possiamo permetterci anche noi di essere sexy, spigliati, e adulati da quanti ragazzi vogliamo.
Siamo finalmente liberi di fare quello che ci pare, anche di essere delle merde. Dopotutto, negli anni Duemila non avevamo grandi punti di riferimento, figuriamoci nel mondo del cinema. Ci siamo rivisti in questi modelli preconfezionati, prendendoli come simbolo di liberazione e potere. Abbiamo interiorizzato quel cliché fino a pensare di poterci fare rispettare dentro questa società solo comportandoci come delle reginette stronze e snob.
Ma la controindicazione di uno stereotipo culturale è che potremmo arrivare a pensare di essere solo quello, lasciando da parte le mille sfaccettature dell’essere umano, queer o meno che sia. Citando di nuovo Boland: “Nonostante numerose persone queer si ritrovano a rimpiangere l’immaginario dei film della nostra adolescenza – immaginari che a differenza del pubblico etero, non abbiamo mai avuto modo di esperire – rischiamo solo di sprecare la vita adulta a rincorrere una fantasia che non è mai stata davvero nostra”.
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