Autostigma e salute mentale per le persone HIV+: l’importanza dell’aspetto psicologico

Ne parliamo con il dottor Marco Ridolfi, medico infettivologo presso il Policlinico Umberto I di Roma.

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Hiv Salute Mentale e Supporto Psicologico
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Sappiamo che l’aspettativa di vita di una persona che vive con Hiv oggi è equiparabile alle persone che l’Hiv non ce l’hanno: grazie alla terapia efficace, il virus viene tenuto sotto controllo e non si svilupperà mai l’Aids.

Sappiamo inoltre per certo, che una persona con Hiv che segue una terapia efficace non può trasmettere il virus, nemmeno attraverso rapporti sessuali non protetti.

Questo viene riassunto dallo slogan U=U: se l’Hiv non è rilevabile (nel sangue), non si può trasmettere.

Significa che le persone con Hiv possono avere una vita sessuale libera e appagante, possono concepire e generare figl* san*, anche attraverso il parto naturale. Significa che non c’è nessuna condizione, almeno dal punto di vista scientifico, per cui aver paura e discriminare le persone che vivono con Hiv.

Nonostante ciò, vivere con Hiv ancora oggi comporta un enorme peso sociale legato al giudizio delle persone e al pregiudizio verso l’Hiv, il tutto accompagnato da una diffusa disinformazione, con il risultato che permane un forte stigma, che genera a propria volta una forte auto-discriminazione in chi vive con l’Hiv, talvolta accompagnata da altri malesseri sociali, correlati alla condizione di appartenenza a una minoranza (il cosiddetto minority stress).

Questi aspetti di ordine sociale condizionano in modo negativo la qualità della vita delle persone che vivono con Hiv e si aggiungono ad aspetti di ordine medico, come l’invecchiamento precoce e una maggiore propensione a patologie cardio-circolatorie, metaboliche e a problemi di salute mentale, che possono essere correlati a una lunga permanenza del virus nel corpo, o anche agli stessi trattamenti per l’Hiv.

Per fortuna, negli ultimi tempi, questo aspetto è stato oggetto di campagne mirate sull’aspetto psicologico, più che clinico, come ad esempio HIV ne parliamo,

Per comprendere maggiormente questo aspetto della vita delle persone che vivono con Hiv, abbiamo parlato con il dott. Marco Ridolfi, dirigente medico presso il Policlinico Umberto I di Roma.

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Vivere con Hiv oggi: le persone con Hiv sono più colpite da problemi di mental health rispetto alla popolazione generale?

La letteratura scientifica, soprattutto quella degli ultimi anni, si è molto concentrata nello studiare la mental health delle persone che vivono con Hiv. Le pubblicazioni hanno riportato diverse casistiche di depressione e ansia con valori più alti rispetto alla popolazione generale, anche le casistiche italiane, riportano una prevalenza dal 20 al 45 %. È tuttavia necessario sottolineare che questi dati vanno raccolti e analizzati con molta attenzione, poiché spesso non hanno un controllo adeguato e tendono a sovra o sottostimare il problema. Ma quello che per certo raccontano, è di una popolazione con una patologia cronica, l’infezione da Hiv, che porta tanti significati sociali, storici e psicologici. Questo dato va sottolineato, ma va contestualizzato, andando ad analizzare il contesto sociale di riferimento e l’awareness nei confronti del vivere con Hiv.

Quali sono le cause di questa maggiore prevalenza? Sono di ordine sociale o/e biologico?

Per quanto riguarda le possibili cause biologiche, che sono solo una minoranza dei casi, è fondamentale che il medico escluda cause organiche e farmacologiche, come per esempio l’utilizzo di terapie cortisoniche o la sindrome di Cushing. Esiste in qualche caso anche una tossicità correlata alla poca tolleranza di alcune terapie per l’Hiv, e anche in questo caso è fondamentale riportare al propri* infettivolog* la percezione di qualcosa che non va.

Diversa è la portata delle cause sociali e psicologiche: l’accettazione dell’infezione da Hiv per sé stessi e da parte degli altri continua ad essere uno dei maggiori problemi. Ci sono vari livelli di accettazione, dal piano familiare a quello relazionale, dagli amici al mondo del lavoro. 

La vita delle persone con Hiv è talvolta caratterizzata da un disagio più o meno presente a seconda della provenienza, vivere in una grande città o in campagna può significare avere maggiori o minori problemi, anche per l’accesso alle cure. Esistono poi problemi di ordine culturale e pure legati al genere o all’orientamento sessuale, per le donne cisgender è spesso molto complicato vivere con l’infezione e avere una vita sessuale soddisfacente, per gli uomini che fanno sesso con altri uomini (MSM) e le persone trans* le problematiche sono altre e spesso sono più correlate al minority stress. Universale è però il fatto che in presenza di disagio psicologico c’è una maggiore difficoltà alla presa in carico e una minore aderenza alle cure, e questo è un punto chiave sul quale lavorare.

Oggi le terapie per l’Hiv sono efficaci e sicure, pertanto è importante che ci concentriamo sulla salute della singola persona in modo personalizzato, poiché l’infezione da Hiv comporta alla necessità di approccio multidisciplinare e fattoriale per garantire il migliore benessere possibile in vita lunga con un’infezione cronica. 

Io per esempio sono un medico infettivologo gay e spesso questo mi aiuta ad approcciarmi maggiormente alla pari con i pazienti gay e LGBTQ+. Molti di questi, mi riportano di non vivere bene il proprio orientamento sessuale, di avere problemi con la sessualità o legati all’identità di genere. Quando l’infezione da Hiv è vista come una colpa inflitta dall’alto e questo rafforza l’omobilesbotransfobia interiorizzata, che sommata allo stress della cura e allo stigma sociale comporta a un peggioramento della qualità di vita.

Un’altra questione importante, che riguarda soprattutto gli MSM, è il chemsex: non va per forza sempre patologizzato o stigmatizzato, talvolta si tratta di un uso ricreativo che non comporta scompenso; ma in alcuni casi diventa patologico in quanto esternazione dell’ansia per le relazioni e del minority stress: quando le sostanze vengono utilizzate per colmare l’ansia e la solitudine può diventare una pratica molto pericolosa e alienante.

Dovrebbe far riflettere la percezione del rischio nel chemsex, ovvero quanto una persona sia informata e consapevole rispetto all’uso di sostanze. Per chi si trova a vivere situazioni di chemsex problematico, l’approccio è molto complicato, ma dobbiamo lavorare sulla consapevolezza del sé nella società, del sé con le relazioni e su come ci relazioniamo nel mondo, promuovendo pratiche di riduzione del danno e utilizzo consapevole

Lo stesso vale per il sesso bareback (senza utilizzo di profilattico). La percezione del rischio è molto bassa. Anche in questo caso è fondamentale conoscere i rischi al quale si va in contro, come per esempio le infezioni sessualmente trasmissibili, avere un programma di screening periodico e non lasciare le cose al caso.

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Quanto la salute mentale influisce sulla qualità di vita?

La mental health rappresenta per una buona qualità della vita la chiave di volta nel vivere con Hiv. È importante non pensare solo al singolo ma anche alla comunità di riferimento e al contesto sociale. Se nella popolazione delle persone che vivono con Hiv c’è un buon tenore di vita e una buona consapevolezza dell’infezione, ci sarà anche una buona aderenza al trattamento e ai percorsi di cura, dobbiamo lavorare ancora molto per normalizzare e sensibilizzare le persone siano esse positive o negative al virus.

Oggi l’Hiv è diventato cruciale nella stessa lotta all’Hiv, e le persone che vivono con Hiv ne sono i protagonisti, a partire da U=U, la non possibilità di trasmissione del virus in presenza di una carica virale non rilevabile grazie ai trattamenti efficaci.

Ci sono altre condizioni di fragilità che aumentano il rischio di una mental health non soddisfacente?

C’è una grande differenza tra chi ha avuto l’Aids e chi no. Chi ha avuto l’Aids generalmente è più grande di età e ha una lunga storia di vita con il virus, legata anche agli anni in cui la malattia era condizionata da un rapporto non risolto con la morte e a un peso sociale ancora maggiore. Oggi fortunatamente queste persone stanno mediamente bene, ma ci sono problemi di poli-pharmacy (assunzione di molte terapie) e di altre patologie legate all’invecchiamento che sono maggiormente presenti in questa popolazione. Ci sono pazienti che sono diabetic*, ipertes*, dislipidemic*. Riuscire a garantire una buona qualità della vita con molte patologie è una sfida attuale e per il futuro, soprattutto dal momento che si parla di una popolazione che sta invecchiando.

È fondamentale per ottenere i migliori risultati possibili ci sia la, migliore predisposizione da parte del clinico ma anche del paziente. È centrale che ci sia intesa tra il medico e l* paziente per affrontare al meglio le sfide di qualunque patologia, in primis nella gestione dell’infezione da Hiv.

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Quali sono i campanelli d’allarme che qualcosa non sta funzionando?

Ci sono molti campanelli d’allarme: l’apatia, la poca voglia di affrontare le sfide quotidiane, di alzarsi ed andare al lavoro, la difficoltà nell’appassionarsi a qualcosa e/o non avere più una rete sociale.

Se il medico è un pari, è ovviamente più semplice il confronto, ma anche un peer-support è preziosissimo, che sia nelle associazioni, nei gruppi tra pari o in ospedale, in modo da favorire l’ascolto e stimolare al porre domande.

Spesso il paziente difficilmente riporta le domande o lo stato di salute al proprio medico e il clinico si ritrova a dover indagare.

Rispetto alla possibile tossicità neurologica di alcune classi di farmaci, che possono determinare disturbi del sonno, ansia o irascibilità, è importante analizzare attentamente ogni singolo caso, senza banalizzare e riportare tutto al farmaco, ma una segnalazione di questo tipo da parte del paziente può essere l’occasione per prendere in mano la discussione tra medico e paziente.

 

Cosa possono fare le persone con Hiv per prevenire o curare la propria mental health? Ci sono delle Tips che consiglieresti?

Nella vita, in generale, bisogna sfruttare ogni momento e cambiare la prospettiva se le cose non stanno funzionando. È importante sfruttare l’Hiv come fattore di crescita personale e non vederlo come una sconfitta né una colpa, ma come un’opportunità per lavorare con sé stessi.

Un’altra chiave per una buona awareness è quella di relazionarsi il più possibile con i propri pari, con la comunità di riferimento, con le realtà che esistono nel territorio, l’aiuto del clinico spesso non basta. 

Qualora ci sia la necessità di un intervento specialistico, di un* psichiatra o di un* psicoterapeuta, va affrontato senza aver paura di essere aiutati, anche farmacologicamente in alcuni casi. Le terapie psichiatriche sono ancora troppo stigmatizzate.

E per concludere, credo che sia importante chiedere il massimo aiuto alla propria rete sociale, per crescere reciprocamente parlando dell’Hiv e trovando supporto da chi fa sentire al sicuro. È tempo di parlare di più di Hiv.

 

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“Hiv, ne parliamo?”, al via la campagna ispirata a storie vere

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