Uno scattante Jim Carrey entra dal fondo della sala stracolma del Palais Stéphanie e si precipita sul palco solcando un pubblico scatenato che lo copre di applausi. È il protagonista del film gay di punta del 2009 (ma da noi uscirà solo a gennaio 2010 per Lucky Red), “I love you Phillip Morris” di John Requa e Glenn Ficarra, commedia sprintosa ad alto voltaggio coprodotta da Luc Besson, ben fatta e davvero divertente, tratta da un romanzo di Steve McVicker ispirato alla vera storia di Steven Russell, personalità dirompente con un quoziente intellettivo record di 169, tuttora recluso in Texas dove deve scontare una pena di 144 anni di carcere, truffatore dalle mille identità, inizialmente pio ‘working man’ con moglie e figli poi abbandonati perché innamorato perdutamente del tenero Phillip Morris/Ewan McGregor per il quale evade in continuazione dal carcere.
“Sono felice di essere in questo bunker impenetrabile! Ci sono solo tre film che avrei fatto comunque, anche gratis: “The Truman Show”, “Se mi lasci ti cancello” e questo. Comunque un’offerta al mio agente l’ho fatta!” spiega Carrey suscitando ilarità in platea. “È una storia complessa, piena di grazia e umorismo. Sono molto onorato di aver partecipato a questo progetto insieme a un sacco di gente creativa”. Purtroppo Carrey ha dovuto lasciare al volo la sala per prendere un aereo e proseguire il tour promozionale del disneyano “A Christmas Carol” che ha fatto tappa sulla Croisette e in cui interpreta il taccagno protagonista Scrooge.
Temevamo che “I love you Phillip Morris” fosse una commedia molto più sbracata e stupidella (i due registi hanno sceneggiato “Babbo bastardo”) mentre viene mantenuto un registro abbastanza equilibrato senza gag scontate, in grado di scherzare anche sul tema Aids senza essere offensivo: trascende solo nella breve, stereotipata parte in cui il protagonista è fidanzato con l’appariscente Jimmy (Rodrigo Santoro) e si dà a shopping sfrenato e vita extralusso (“Essere gay è davvero costoso!”).
Brioso, ritmato e a suo modo esuberante, “I love you Phillip Morris” ruota intorno al suo vero centro di gravità che è un malleabile Jim Carrey in una delle sue interpretazioni più riuscite e meno macchiettistiche (il suo trasformismo ce lo mostra anche pallido e scheletrico) mentre Ewan McGregor, delicato e accondiscendente, resta quasi in ombra. Il vero Phillip Morris ha avuto il ruolo di consulente sul set e ha una breve apparizione nel film, esattamente come Steve McVicker.
Il loro rapporto amoroso, trascinante e giocoso, ha una sua credibilità – non mancano leggiadre scene d’intimità e sesso, tra cui un blowjob effettuato da Ewan McGregor con sputo dello sperma in mare e il commento di Jim Carrey: “Sei molto migliorato!” – anche perché non viene mai sottolineata più di tanto l’eccezionalità del loro orientamento sessuale. “Questo non è un film sull’essere gay” spiega Ficarra. “È una storia d’amore fra due persone che per caso sono gay. Il nostro tormentone durante la produzione era: non indossate l’essere gay come un lasciapassare”.
Un’altra bella sorpresa del festival è la notevole opera prima “Eyes Wide Open” di Haim Tabakman, applauditissima alla proiezione ufficiale, dramma realista di denuncia sul rispettato Aaron (Zohar Strauss), un macellaio ebreo ortodosso, sposato con quattro figli, che si innamora perdutamente del garzone ventiduenne Ezri (il celebre cantante/attore israeliano Ran Danker, presente in sala con la fidanzata) ma viene ostracizzato dalla comunità religiosa di Mea Shéarim, il quartiere giudeo di Gerusalemme. Messa in scena rigorosa e vicenda avvincente a cui infondono passione gli ottimi protagonisti, in particolare Ran Danker, carismatico e cinegenico. “La macchina da presa ama Ran” conferma Tabakman. “Ha una vera capacità intuitiva come attore. Come Ezri è privo di inibizioni. Alcuni religiosi ci hanno aiutato a realizzare il film ma nessuno voleva essere segnalato o ringraziato nei titoli di coda. C’è un’energia fortemente negativa associata a questo tema. Se vuoi far parte del mondo ortodosso, non c’è modo di placare questo conflitto: l’omosessualità non è accettata. Aaron vuol far parte del circolo religioso ed essere autentico. Deve pagarne il prezzo: perdere il suo potere in quell’ambito per essere se stesso.
La maggior parte delle volte, i religiosi scelgono di non combattere. Vivono una doppia vita, abbandonando la propria autenticità. Non considerano l’omosessualità un peccato, per loro semplicemente non esiste. Nel Talmud è scritto che i figli di Israele non sono nemmeno sospettati di fare queste cose. Dio non ha fatto il mondo in questo modo. Se dici a un religioso: “Sono gay, che cosa devo fare?”, risponderà: “Se sei tentato, devi conoscere il tuo dovere di fronte a Dio e alla comunità”. Per loro è solo uno stimolo malvagio. Essere gay è come una malattia di cui puoi facilmente liberarti. Non può far parte dell’essenza umana”.
Non convince affatto, invece, “Los abrazos rotos” (Gli abbracci spezzati), campionario già visto di barocco almodovariano autoreferenziale: compiacimenti metacinematografici (il film nel film “Ragazze e Valigie” ricalca “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”), un’attrice insicura – Penelope Cruz, meno brava che in “Volver” – legata a un frollato produttore e a un regista cieco, un contorno di tappezzeria queer ormai di maniera (il documentarista gay vendicativo, parrucchieri e truccatori effemminati, etc.), una dominante rossa che percorre tutto il film, una trama inutilmente intorcinata che risulta solo un freddo omaggio alla cinefilia del regista. Per Pedro sembra un incidente di percorso, un momento d’impasse creativa, un rifare se stesso senza grandi stimoli. “Los abrazos rotos” è un film ‘troppo scritto’ e sullo schermo perde efficacia, analogo difetto riscontrabile in “La mala educación” che, comunque, era decisamente migliore.
Risate e un po’ di leggerezza (finalmente) nella gagliarda commedia anarchica “Le roi de l’évasion” (Il re dell’evasione) di Alain Guiraudie, eccentrico regista francese specializzato in favolistiche divagazioni agresti. In questo suo fresco raccontino bucolico c’è un pingue gay quarantatreenne (Ludovic Berthillot), solitario venditore di trattori con madre oppressiva, che si invaghisce di Curly (la graziosa Hafsia Herzi di “Cous cous”), una brunetta sedicenne sottratta, pagando, a un gruppetto di bulli. Verrà inseguito per tutto il film dal padre di lei, rivale anche in affari, e da un ispettore di polizia invadente mentre i due fornicano in mezzo alle fratte e si gustano strani metaforici funghetti. Da Guiraudie non ci si possono aspettare grandi verità sulle mutazioni sessuali contemporanee ma solo un gusto rurale e libertario per la diversità anticonvenzionale vissuta come fuga anti-omologazione dal mondo civilizzato e ingabbiato dalla dualità etero/gay. Anche qui varie scene di sesso super maialino, con carne polposa in bella vista (verrà amato dai fan del genere ursino). Molto applaudito alla Quinzaine, pare che sia stato ‘scippato’ al festival “Da Sodoma a Hollywood” dai collaboratori di Gianni Amelio, neodirettore gay del Torino Film Festival.
di Roberto Schinardi – da Cannes
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