Di Tolve e la cultura violenta della conversione

Il Luca che era gay nel brano di Povia si racconta, ma nel modo peggiore: fra cori di angeli e la virilità ostentata. E quella richiesta di farsi ritrarre come una moderna Santa Teresa in estasi.

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Insomma non faccio in tempo a ritirare su la mascella dopo aver letto la dichiarazione fantascientifica di Renato Zero che dichiara di essere uno schianta papere, che rischio nuovamente una lussazione mandibolare procurata dall’intervista rilasciata per "A" da Luca Di Tolve al quale manderò presto la parcella del mio chirurgo maxillo-facciale.

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Prima di procedere con la lettura di questo pezzo, un’avvertenza rivolta a chi porta avanti la nobilissima concezione che tutti i punti di vista  abbiano la dignità di essere espressi, e a chi crede che la bellezza dell’arcobaleno risieda nella convivenza di tanti colori diversi, a quanti pensano che tutti possano democraticamente dire la loro: non ho intenzione di avere un atteggiamento costruttivo e dialettico con il signor Di Tolve perché se lui può permettersi  di descrivere l’omosessualità come "innaturale" io ho il diritto di controbattere dandogli dell’imbecille. A costo di sembrare tranciante e aggressivo. Perché arriva un punto oltre il quale l’opinione scavalca il rispetto per diventare insulto violento e pericoloso. E va contrastato. Perché l’inattendibilità scientifica delle sue dichiarazioni sono ben più lesive di un aggressione fisica. Perché il suo progetto di "conversione dell’omosessualità" alimenta odio e risentimento. Perché il suo è un pensiero subdolo che pericolosamente rischia di fare breccia su menti spesso deboli e culturalmente impreparate facendo leva sul dolore personale di molti che con fatica convivono con la loro omosessualità.

Di Tolve, riassumendo per quanti a buon diritto non sanno chi sia, è il "Luca non è più gay" di Povia, e già qui si chiarisce come la dualità testicolare sia un paragone sempre azzeccato anche quando lo si applica agli esseri umani.

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Di Tolve, senza un benché minimo attestato accademico parla di omosessualità come del frutto di traumi subiti nell’età della crescita e che purtroppo, nel suo caso, ne hanno minato solo la virilità e non anche l’emisfero cerebrale nel quale risiede il dono della parola. La sua storia in 2 righe: figlio della Milano bene, ha visto negli anni ’90 cambiare più partner che calzini, poi arriva la malattia, gli diagnosticano il virus dell’hiv e magicamente, aggrappandosi ad un rosario sente "un coro di angeli". Capisce quindi che l’omosessualità può e deve essere contrastata, che la vera natura dei maschi è quella di essere virili e seguendo i consigli del dottor Nicolosi (ndr: un medico americano che cura l’omosessualità facendo ascoltare il rombo delle Ferrari perché, giuro che non è una battuta rubata da un film a caso dei Vanzina, è un suono maschio e forte insieme) esce dal tunnel dell’omosessualità.

L’intervistatore che a questo punto immagino si sia spento una Marlboro sul braccio per verificare che tutto questo non sia frutto di un sogno, gli chiede come abbia fatto a resistere alle tentazioni. Di Tolve, che per aggiungere ridicolo al grottesco è anche sposato, risponde di aver domato le sue fantasie, di aver smontato la sua libido, di fare sport e box per allontanare certe fantasie, che è un po’come faccio io quando penso alla morte tragica del mio primo cucciolo di gatto schiacciato da una macchina ogni volta che mi scappa la pipì e non so dove farla pur sapendo che, per quanto possa ridurmi a questi subdoli diversivi, la pipì sempre lì sta e prima o poi dovrò farla.

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Andando avanti, il suo delirio svetta e si impenna parlando dell’impulso omosessuale come di una continua e ossessiva ricerca di sesso, cosa della quale i maschi eterosessuali sono del tutto privi, anzi si sa, se non ci fossero orde si donne a costringerli con stupri di gruppo, loro potrebbe benissimo fare a meno di scopare del tutto. Insiste su come il sesso abbia un ruolo predominante nella vita dei gay e di come non parlino d’altro. E a dirlo è sempre lui, che ha creato una fondazione chiamata Lot, che della sessualità, o meglio della sua conversione verso la retta via, ne ha fatto l’unico motivo d’essere. Scorrendo l’intervista passo sopra al fatto che lui adesso vota Buttiglione perché tanti gay, di quelli che non si danno le martellate sulle palle per sedare le proprie pulsioni, comunque votano per il centro destra, ma verso la fine la prova inconfutabile di quanto se nasci frocio, frocio muori è la sua accorata richiesta al giornalista: «Per piacere, nelle foto cercate di farmi apparire come sono oggi: uomo».

E in quella più grande, al centro della pagina, vediamo lui, il caro Luca che non è più gay ma ormai un essere etereo, evanescente, dallo sguardo ispirato e dalla posa elaborata alla Avedon, proteso in un dialogo mistico con l’Altissimo, che ci regala una struggente e memorabile versione 2.0 dell’estasi di Santa Teresa.

di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti

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