HIV, Plus: “Il servizio delle Iene ci rimanda indietro di 20 anni”

Il presidente di Plus contro Le Iene: "Basta cose raffazzonate: c'è troppa ignoranza"

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“Il servizio delle Iene ci ha riportato d’un colpo indietro agli anni ’90”. Non usa mezzi termini Sandro Mattioli, presidente di il servizio di Nadia Toffa andato in onda ieri sera e che tanto sta facendo discutere. Lo abbiamo intervistato per farci spiegare perché quel servizio andava fatto in un altro modo.

Perché è così critico con le Iene?
Quello dell’HIV/AIDS è un argomento delicato, va trattato con competenza. Siamo stanchi di cose raffazzonate. Quel servizio ha certamente il pregio di essere provocatorio, nello stile delle Iene. Ma è l’unico pregio. Per il resto, è costruito male. Nadia Toffa spesso ha detto delle cose corrette, ma partendo da ragionamenti che non stanno in piedi, o suoi o dei pazienti che ha intervistato. Faccio un esempio per tutti. Quell’accenno alla terapia in cui dice che i farmaci che si assumo sono ‘chemioterapici che entrano nel DNA e sono potenzialmente cancerogeni’ è un’assurdità che non sta ha alcun fondamento scientifico”. Lo sanno, alle Iene, che moltissime persone non fanno il test perché sono terrorizzate dal fatto che, se risultassero positive, finirebbero a dover fare cure come la chemioterapia con tutte le conseguenze che questa comporterebbe? È un messaggio da anni ’90, in cui l’immagine del malato era di un povero cristo con la gobba e in condizioni fisiche pietose. Non è più così da almeno 15 o 20 anni.

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Che altri difetti ha quel servizio?
Fa implicitamente passare dei pazienti come esperti e così non è. Qualsiasi paziente informato non può non dirti che è meglio gestire qualche effetto collaterale della terapia (ormai noti, per altro) che avere il virus nel sangue. E in più ad un certo punto, mette sullo stesso piano chi decide di farsi contagiare volontariamente e chi, invece, ha una relazione con una persona sieropositiva. Infine, seppure condannandolo, riproporre quel video dello spot in cui le persone contagiate vengono circondate da un alone viola, è sbagliato proprio sul piano della comunicazione. Insomma, provocazione a parte, non ha reso un servizio alla lotta all’HIV, certamente. Siamo stati attaccati sia sul piano della discriminazione contro le persone con HIV che sul piano della gestione dei farmaci. Quel video è la dimostrazione che in Italia c’è ancora un’ignoranza generalizzata che porta a dare delle comunicazioni superficiali, controproducenti e addirittura errate.

Secondo lei cosa può aver pensato una persona con HIV o che vorrebbe fare il test, dopo quel servizio?
Sono sicuro che quelle immagini spingeranno le persone HIV+ ancora di più nel limbo e le altre a mettere la testa sotto la sabbia, per paura. La paura è il punto cruciale di tutto. La paura del virus, ma anche la paura dello stigma, dell’isolamento. Perché non si parla di diagnosi? Bisognerebbe che tutti sapessero che ancora una persona sieropositiva su due lo scopre tardissimo, con tutto quello che ne consegue. E noi che messaggio diamo? Che se facciamo il test e risultiamo positivi, rischiamo di essere discriminati? È pericolosissimo.

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Però esistono gruppi di persone che cercano volontariamente di farsi contagiare. Le Iene non ha scoperto nulla di nuovo.
Certo, esistono. Ma far passare un gruppo di scellerati come un fenomeno in diffusione, come una sorta di moda non è corretto. In Italia non si fanno studi su queste cose, ma ricerche che ci arrivano dagli Usa dicono che c’è una stanchezza diffusa che sta portando le persone a smettere di usare il preservativo. Alcuni lo vedono come una cosa artificiosa, innaturale, ma molti sono proprio stanchi di vivere con questa spada di Damocle sulla testa da 30 anni. Ed è un fenomeno che sta arrivando anche in Italia. Mi riferisco semplicemente a persone che decidono di smettere di usare il profilattico e si affidano alla sorte, non di persone che cercano appositamente il contagio. È una cosa diversa.

E cosa si può fare per evitare che chi non vuole usare il preservativo corra dei rischi?
Il preservativo resta centrale, ma non è la sola cosa su cui si dovrebbe puntare. Negli Usa già da due anni si parla di profilassi pre-esposizione (PrEP) e anche l’OMS l’ha nelle linee guida della prevenzione dell’HIV. Si tratta di farmaci antiretrovirali da assumere prima di situazioni potenzialmente a rischio, ma in Italia non se ne parla mai.

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C’è ancora da parlare di prevenzione, dunque, di stigma e di discriminazione.
In Italia c’è poca dimestichezza nell’affrontare certi temi che vanno nel profondo della vita delle persone. E vi dirò di più: c’è anche poca abitudine da parte della comunità lgbt a gestire certi temi, sia dal punto di vista umano che sociale. Di HIV si parla solo l’1 dicembre, con un flusso di informazioni concentrate in 24 ore che rischia anche di essere poco efficace. Poi, non se ne parla più, neanche nelle associazioni. Quando si parla di discriminazioni, il tema dell’HIV non viene mai fuori. Viviamo ancora una paura intrinseca ad affrontare la questione.

Perché le associazioni lgbt dovrebbero parlarne più degli altri?
Perché l’HIV si sta diffondendo di più tra i maschi che fanno sesso con maschi. Checché se ne voglia dire, i dati del Centro Operativo Aids hanno registrato un incremento del 18% nelle diagnosi dell’ultimo triennio, con riferimento proprio ai maschi che fanno sesso con maschi. Siamo in linea con il resto dell’Europa, sia chiaro, ma il punto è che altrove ci si muove, si fa qualcosa, si fanno campagne molto efficaci. Da noi, no.

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Ad esempio?
Ricordo una campagna francese dello scorso anno in cui c’era rappresentato un pene in erezione e un serpente che usciva dall’uretra. E poi c’era solo il nome dell’associazione. Chiara e d’effetto. La Regione Emilia Romagna, solo per fare un esempio del tutto diverso, ha appena lanciato una campagna in cui si vede una coppia di ragazzi eterosessuali, seduti su una panchina con la mano di lei che copre quella di lui e la frase: “Proteggersi sempre, discriminare mai”. E poi c’è un preservativo. Lungi da me affermare che non bisogna rivolgersi anche agli eterosessuali, sia chiaro. Ma l’emergenza è altrove: la vogliamo ignorare?

di Caterina Coppola

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