Revenge porn, la legge italiana è un disastro, ecco perché

Il nostro paese dispone di una legge e un dipartimento del Garante della Privacy dedicati esclusivamente a contrastare la circolazione di contenuti intimi condivisi senza il consenso. Ma funziona davvero?

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Revenge Porn
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La tragica scomparsa di Tiziana Cantone, che ha scelto di porre fine alla propria vita nel 2016 a seguito della vergogna e dello scherno scaturiti dalla diffusione non consensuale di un suo video intimo ad opera dell’ex fidanzato, ha messo in luce con drammatica evidenza i pericoli insiti nel fenomeno del revenge porn.

La condivisione di materiali intimi senza il permesso dellǝ interessatǝ è diventata una vera e propria piaga che cresce al passo con l’evoluzione delle piattaforme di condivisione di media. Inequivocabilmente, il nocciolo della questione sta  nella violazione del consenso, un principio fondamentale per distinguere ciò che è reato e ciò che non lo è.

Questo ci porta a riflettere sulla natura del revenge porn, spesso equiparato, da un numero crescente di persone, alla violenza sessuale per l’intensità del danno arrecato all’integrità e alla dignità delle vittime. Di fronte a tale constatazione il nostro sistema legale offre reali protezioni a chi si trova a subire tali violenze? E, in caso affermativo, queste misure sono sufficientemente efficaci da garantire giustizia e riparazione?

Revenge porn, la legge fantoccio

La questione della lotta al revenge porn nel nostro ordinamento giuridico sembra trovare una risposta nella legislazione vigente, che, almeno sulla carta, offre degli strumenti di tutela.

A partire dal 2021, il Garante della Privacy è stato incaricato di monitorare e, idealmente, impedire la circolazione di contenuti intimi condivisi senza il consenso reciproco delle parti coinvolte. Tuttavia, nonostante la presenza di una normativa specifica, l’efficacia di questa misura lascia spazio a molteplici perplessità.

Il cuore del problema risiede nella natura operativa del Garante. L’articolo 144-bis del Codice della Privacy prevede che chiunque nutra sospetti circa la diffusione di materiale riconducibile al revenge porn possa segnalarlo all’Autorità tramite un form dedicato.

Tuttavia, il ruolo dell’Autorità sembra essere circoscritto a quello di intermediario: la sua responsabilità si limita a inoltrare la segnalazione alle piattaforme online dove il materiale è stato pubblicato – che talvolta non dispongono di team di moderazione locali. Di conseguenza, la decisione di intervenire, rimuovendo il contenuto o bloccandone la diffusione, è lasciata alla discrezionalità delle stesse piattaforme. Insomma, è tutto in mano a Pornhub, XVideo o altre piattaforme, certo non celebri per i loro rigorosi principi etici.

L’inefficacia tecnica della legge contro il revenge porn

Oltre ai limiti strutturali di una normativa che appare sostanzialmente inefficace, emergono criticità anche sul piano tecnico riguardo il meccanismo di segnalazione e blocco del revenge porn.

Il sistema si basa sull’utilizzo dei cosiddetti “codici hash“, identificatori unici generati per ogni copia del materiale segnalato. Tuttavia, la natura stessa dei codici hash presenta una sfida insormontabile: è computazionalmente impossibile risalire al file originale a partire dal suo hash, dato che ogni modifica, anche minima, al file porta alla generazione di un hash completamente nuovo.

Questa caratteristica rende gli hash estremamente vulnerabili a tentativi di elusione: i malintenzionati possono semplicemente alterare leggermente i file – attraverso il ridimensionamento, la modifica della qualità, l’aggiunta di filigrane o altre piccole modifiche – per evitare il riconoscimento e la conseguente rimozione.

La situazione è ulteriormente complicata dalla varietà di politiche, capacità tecniche e livelli di cooperazione tra le diverse piattaforme online e servizi di hosting.

La mancanza di un approccio uniforme e coordinato significa che, anche quando un contenuto viene bloccato su una piattaforma, può essere facilmente ripubblicato e diffuso su altre che non condividono lo stesso database di hash o che non adottano politiche di intervento comparabili.

Nonostante queste evidenti criticità, il dipartimento del Garante della Privacy dedicato al contrasto del revenge porn rimane operativo sette giorni su sette, impiegando risorse umane e infrastrutturali significative – inclusi quattro funzionari e un dirigente.

La struttura, supportata da un’ampia rete informatica progettata per prevenire furti di dati – data la natura estremamente sensibile dei materiali gestiti – si rivela quasi completamente inefficace, tranne che per casi isolati e paradossali, come rivelato da fonti interne, in cui mitomani ed esibizionisti approfittano del sistema per esibire i propri contenuti espliciti al personale dell’ufficio.

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