«Io non scrivo. Descrivo». Così definiva il proprio lavoro Françoise Sagan, una delle scrittrici popolari francesi più controverse, amate e odiate allo stesso tempo, divenuta un caso letterario a soli diciott’anni con l’epocale ‘Bonjour Tristesse’ divenuto un celebre film di Otto Preminger con Deborah Kerr e David Niven, morta cinque anni fa devastata da alcol e droghe, in completa solitudine e indigenza. Abbiamo potuto riscoprire la sua vita tumultuosa, eccessiva e appassionata in un discreto biopic presentato ieri sera al Festival Mix di Milano, ‘Sagan’di Diane Kurys (‘Les enfants du siècle’).
Autrice di romanzi best-seller in grado di tradurre alla perfezione la sua malinconica visione del mondo («La vita, alla fine, non è che una questione di solitudine») e interpretare con puntigliosità quel sottile, annoiato disagio che stava dilagando nella società borghese tra i ’50 e i ’60, Françoise Sagan divenne ben presto il facile bersaglio dei critici puristi che definivano ‘musica minore’ la sua prosa semplice ma non scarna, intrisa di inquieto e disilluso sentimentalismo, rinfocolati dalla contestata vittoria del Prix des Critiques nel 1954 proprio per ‘Bonjour Tristesse’. Sagan era uno pseudonimo – si chiamava Quoirez, il padre era un facoltoso industriale – scelto tra i personaggi minori della Recherche proustiana, una principessa ottocentesca.
Al successo precoce seguì una vita di eccessi rocamboleschi, una passione sfrenata per auto di lusso e alta velocità (finì anche in coma a causa di un brutto incidente), salotti mondani e hotel prestigiosi, cavalli da corsa e gioco d’azzardo: il suo numero feticcio, l’otto, le fece vincere altrettanti milioni di franchi al casinò di Deauville che le permisero di comprarsi una sfarzosa magione per le vacanze. Ovviamente era l’otto agosto e lei puntò per due volte consecutive su un singolo estratto, proprio l’otto!
Sfrenata anche in amore, la Sagan ebbe due mariti, uno dei quali gay, e un figlio che abbandonò presto e non volle più vedere per tutta la vita. Si legò anche a due donne, l’ex modella Peggy Roche, forse l’unica, vera grande passione della sua vita, con cui visse quindici anni, e l’abbiente Ingrid Mechoulam che fu il suo angelo protettore negli ultimi anni della sua vita ma contribuì all’isolamento senza riuscire a farla emergere dalla dipendenza cocaina, ormai cronica, per cui subì un processo.
Il biopic ‘Sagan’, inevitabilmente un po’ televisivo (è la riduzione per il grande schermo di una miniserie tv in due puntate), asciuga al massimo ogni accenno sentimental/sessuale, sia etero che gay: si intuisce che il marito è omosessuale da un casto braccio intorno al collo dell’amante maschio, mentre l’intimità saffica è resa implicita dalla convivenza nella stessa abitazione. Ciò limita anche l’approfondimento psicologico delle relazioni stesse, ammorbidendo la carica trasgressiva di questi rapporti come venivano percepiti allora dall’opinione pubblica. Il vantaggio, però, è evitare un eccesso di sentimentalismo che già pervade le pagine della prolifica Sagan (circa cinquanta opere fra romanzi e pièces).
L’autrice sostiene infatti che «scrivere è come avere un affaire amoroso, è un’urgenza sensuale. Ma è anche un modo intelligente di ingannare la noia e di dimenticare ciò che manca di essenziale. Si ama per sfuggire alla solitudine, ecco la vera tristezza!».
Chapeau alla bravissima protagonista, Sylvie Testud, incredibilmente somigliante alla vera Sagan, pinocchietto minuto con caschetto bombato, sguardo irrequieto e mimica spiccia. È lei, infatti, il vero fulcro di quest’operazione un po’ troppo timorosa nel contenere gli aspetti parossistici dell’esistenza della Sagan, quali la dipendenza dall’alcol (dal film si evince appena) e l’amicizia con Mitterrand che le causò un lungo processo per evasione fiscale legato allo scandalo delle tangenti della società petrolifera Elf, completamente cassato nella versione cinematografica.
Pochi se lo ricordano – e anche il film glissa su questo episodio – ma la Sagan fu presidente di giuria al Festival di Cannes nel 1979 e rivelò pubblicamente le pressioni a cui fu sottoposta per assegnare la Palma d’Oro ex-aequo a ‘Apocalypse Now’ e a ‘Il tamburo di latta’. Che donna!
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