Stephen Port è conosciuto nel Regno Unito alla stregua di un serial killer. Tra il 2014 e il 2015, quando è poi stato finalmente arrestato, si è reso autore delle morti di quattro giovani ragazzi – tutti tra i 21 e i 25 anni. Conosciuti online, in particolare sull’app di dating gay Grindr, Port li attirava nella sua casa, dove somministrava loro una dose letale di GHB (la droga dello strupro), li violentava e li lasciava poi morire. I loro nomi: Anthony Walgate, Gabriel Kovari, Daniel Withworth e Jack Taylor.
Il processo, durato anni, ha portato alla luce diversi aspetti inquietanti sulla vicenda dopo aver condannato l’uomo al carcere a vita. L’ultima sentenza, che risale al 10 novembre, ha decretato come i fallimenti nelle indagini da parte della polizia abbiano “probabilmente” contribuito alle morti quando, vi fosse stata una ricerca più approfondita, alcune delle sue vittime potrebbero essere ancora vive. Port ha tentato infatti di depistare le immagini in molti modi e, nonostante tutti i cadaveri delle prime tre vittime siano stati ritrovati nello stesso posto, nel cimitero di Barking, è stato solo dopo la quarta vittima che le morti sono iniziate a sembrare sospette agli investigatori che hanno ricollegato i casi per le loro somiglianze.
Alle domande del giudice se le mancanze delle indagini abbiamo “probabilmente” contribuito alle morti causate da Port, la risposta della giuria è stata “Sì”.
Non che sia una vittoria per le famiglie delle vittime che, a differenza di quello che spera la corte – cioè che abbiano trovato delle risposte ad alcune delle loro domande -, hanno dovuto ascoltare la giuria giustificare in qualche modo le mancanze. «Siamo d’accordo sul fatto che gli ufficiali di tutti i gradi all’interno del dipartimento siano stati sottoposti a un pesante carico di lavoro che ha portato a certi errori nelle indagini. [..] Abbiamo concordato che nessuno legato al caso ha avuto il tempo sufficiente per esaminare l’indagine in profondità, il che ha permesso un completo fallimento della supervisione dell’indagine», si è ascoltato nell’aula del tribunale.
Sono queste affermazioni che hanno spinto Peter Tatchell, attivista per i diritti umani, ad accusare la polizia di omofobia istituzionale, chiedendo che i poliziotti coinvolti nel caso siano sottoposti ad azioni disciplinari.
«Le prove fornite all’inchiesta di Stephen Port hanno rivelato che la polizia è stata incompetente, negligente, non professionale e omofobica. Ogni persona gay che ha espresso preoccupazione per le morti è stata ignorata, licenziata e trattata con disprezzo, persino il partner di una delle vittime. Questa è omofobia istituzionale. Gli agenti coinvolti devono affrontare azioni disciplinari»
Che il comportamento della polizia siano quantomeno discutibile è fuori discussione e ha fatto nascere una serie di proteste nella comunità LGBTQ+ britannica, che non si sente protetta da chi dovrebbe far rispettare la legge. Non ci sono prove per accertare che le morti siano state volontariamente sorvolate solo perché riguardavano persone gay, ma la spia del dubbio si è ormai accesa. Troppe incongruenze e omissioni che, in un dipartimento di polizia, non dovrebbero per nessun motivo accadere. La vicenda di Stephen Port, a distanza di quasi sette anni, non si è ancora chiusa e molti, ora, chiedono giustizia anche nei confronti di chi, a quelle morti, non ha creduto.
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