Ieri il TAR del Veneto ha depositato una sentenza che ha finalmente svelato la fine di una lunga vicenda umana e giudiziaria con protagonista un poliziotto di Venezia sospeso e poi licenziato nel 2005 per comportamenti ritenuti “riprovevoli”.
L’incidente ha fatto seguito a tre occasioni in cui l’ufficiale è stato visto passeggiare per Venezia “vestito da donna”, episodi che avevano portato le autorità a citare tale condotta come “denotante una mancanza di senso dell’onore e della moralità” senza fornire ulteriori dettagli.
Oggi, l’ex poliziotto verrà risarcito per il danno subìto: vediamo cos’è successo.
Una vicenda durata quasi vent’anni
I primi guai per l’ex poliziotto veneziano erano arrivati nel 2006, quando a seguito dell’Istruttoria condotta dalla Questura, era stato sospeso e licenziato dopo essere stato “beccato” a “vestirsi da donna” in giro per le strade di Venezia.
Secondo quanto riportato dai documenti procedurali, l’ex poliziotto aveva indossato una «minigonna color celeste» e «orecchini pendenti lunghi fino alle spalle» in Strada Nova, «un paio di sandali» vicino al ponte di Rialto, e una «maglietta nera corta con l’ombelico visibile» a piazzale Roma.
L’imputato aveva dichiarato di non identificarsi come transgender, ma di apprezzare semplicemente il vestiario femminile, e di sentirsi a proprio agio ad indossarlo fuori dall’orario di lavoro in maniera “estrosa e anticonformista”, che non andava intesa invece come “immorale”.
Eppure, il suo razionale non aveva convinto i giudici: l’ex poliziotto era stato dispensato dal servizio per una presunta inabilità fisica.
«Veniva dichiarato affetto da un disturbo dell’identità di genere che, oltre a chiarire la condotta oggetto di censura, determinava la declaratoria di permanente non idoneità al servizio» – si legge sulla documentazione del TAR, raccolta per il ricorso presentato.
Dopo un incalzante interesse mediatico per la vicenda, essa era poi finita nel dimenticatoio – e l’interessato era rimasto non solo senza lavoro, ma anche con una profonda ferita emotiva causata prima dalla gogna pubblica, e poi dall’ingiustizia subita.
Sì, perché per diversi mesi dopo la diagnosi di disforia di genere, accertata dal Viminale, gli uffici hanno poi reintegrato l’ex poliziotto in ruoli civili considerati “mansioni compatibili con la sua ridotta capacità lavorativa e la natura delle infermità sofferte”.
Nei mesi di svolgimento della procedura di passaggio nei ruoli del personale civile, però, l’ex poliziotto si trovava in aspettativa speciale e non aveva percepito reddito. Da qui, la richiesta di risarcimento per gli emolumenti non percepiti, a partire dalla sua destituzione fino al reintegro in diverso ambiente di lavoro.
Richiesta rigettata dal dicastero, e seguita da un ulteriore ricorso al TAR tramite gli avvocati Alfredo Auciello e Giacomo Nordio, i quali hanno sostenuto che al loro cliente spettassero gli assegni non percepiti fatta eccezione per le indennità speciali e gli straordinari.
L’Avvocatura dello Stato – rappresentante il Viminale – aveva però osservato la tardività con cui i provvedimenti erano stati impugnati e contestati, ostacolando ulteriormente la procedura di rimborso per l’ex poliziotto.
Tuttavia, il TAR aveva comunque accolto la richiesta di accertamento del diritto alla ricostruzione economica della carriera, procedura standard in caso di revoca degli addebiti disciplinari.
Un cavillo che ha permesso alla vittima di questa indecorosa vicenda di ottenere finalmente giustizia, dopo una punizione assolutamente ingiustificata.
Vestirsi “da donna” non inficia con la performance lavorativa in nessun modo, ed è anzi espressione libera della propria individualità a prescindere dalla carriera che si è deciso di intraprendere. Che lo si faccia durante l’orario di lavoro, o al di fuori, cambia poco.
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