Timi interpreta un malato di Aids in “Un castello in Italia”

Esce in sala "Un castello in Italia", curiosa tragicommedia sull'orlo di una crisi di nervi in cui l'attore umbro interpreta un personaggio ispirato a Virginio Bruni Tedeschi, morto di Aids nel 2006

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Il prossimo 27 febbraio compirà quarant’anni ma la piena maturità di attore incisivo e versatile l’ha raggiunta da tempo. Tutti lo cercano, tutti lo vogliono. Bellocchio, Salvatore, Ozpetek, Placido, Montaldo. Al prossimo festival di Roma lo vedremo in Come il vento di Marco Simon Puccioni ispirato alla vita di Armida Miserere, direttrice di carcere morta suicida, e ne I corpi estranei di Mirko Locatelli in cui sarà un amorevole padre di un bimbo malato. Ma qual è il segreto di Filippo Timi, il più desiderato e coccolato interprete della sua generazione? Forse l’inedita miscela di virilità dominante, magnetismo ombroso dal cipiglio maligno (a teatro si è incarnato persino in Satana) e irresistibile sensibilità sottopelle che svela tutte le sue fragilità personali, dalla balbuzie persistente che pare vincere solo sul set o sul palco alle difficoltà visive che gli conferiscono un’espressività arcana e un po’ alienata, particolarissima. E forse aiuta anche la bisessualità dichiarata nei suoi libri in cui l’autofiction è imprescindibile (ecco un’artista davvero poliedrico, pure scrittore dalla prosa inquieta e pastosa) che lo rende possibile oggetto del desiderio per uomini e donne: in un’intervista ha anche dichiarato che “essere gay è un regalo sovrumano” e lo si dice attualmente fidanzato con uno scrittore bello e aitante quanto lui. Se dovessimo sintetizzare l’arte di Filippo in un unico personaggio da lui interpretato, non si potrebbe non pensare al dimenticato prostituto Antonello, più travestito che trans, magma virile in una corazza smaltata di fondotinta, nell’anarcoide ‘Rosatigre’ (2000) di quel “teppista dei sentimenti” che è il regista underground Tonino De Bernardi.

Da oggi possiamo vedere Filippo Timi al cinema in un film in cui l’autofiction, ma questa volta della regista/attrice Valeria Bruni Tedeschi, è nuovamente essenziale: trattasi della commedia drammatica Un castello in Italia presentata in concorso all’ultimo festival di Cannes e distribuita da Teodora, curiosa cine-rielaborazione sull’orlo di una crisi di nervi tragicomica di un segmento di vita della ricca famiglia dei Bruni Tedeschi, incentrata in particolare sulla vendita di un loro castello fiabesco nel comune torinese di Castagneto Po. La protagonista Louise, insicura e un po’ goffa, si presenta così: “Ho smesso di fare l’attrice per far posto alla vita nella mia vita”. Louise è Valeria, Valeria è Louise? In parte. Louise si fidanza come Valeria col giovane attore Nathan (Louis Garrel, con cui Valeria quattro anni fa ha adottato una bimba, Céline) ma non riesce ad avere figli – pare che la scena del provino gender di Garrel sia stata ispirata da quello vero per il ruolo della prof trans di ‘Lawrence Anyways’ diretto da Xavier Dolan.

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Filippo Timi è dolente e trattenuto, bravissimo, nel ruolo del fratello Ludovic morente per Aids: proprio come il vero fratello Virginio Bruni Tedeschi, fotografo e giramondo deceduto a causa dell’Hiv nel 2006 a soli 46 anni. Nel film Ludovic si sposa in articulo mortis con una donna ma si potrebbe pensare a una sua possibile bisessualità poiché l’amico Serge (Xavier Beauvois), durante il funerale officiato da un prete bislacco (Pippo Delbono) che giunge in chiesa col trolley, grida di averlo amato appassionatamente.

Della vita personale di Virginio in realtà si sa pochissimo e i Bruni Tedeschi non amano parlarne. “Fisicamente, Filippo,Timi non somigliava affatto all’attore che avevo immaginato per il ruolo del fratello – spiega Valeria Bruni Tedeschi -. Neanche ci somigliamo. Poi, vedendo gli screen test, si è rivelata una connessione tra di noi che mi ha sorpreso. Sentivo un’infanzia comune, eravamo da subito fratello e sorella. E la stessa sintonia, in modo del tutto naturale, è scattata tra Filippo e mia madre”.

Le connessioni tra realtà e finzione non finiscono qui: Valeria ha tagliato in sceneggiatura il personaggio ispirato alla sorella Carla che inizialmente doveva arrivare all’improvviso da lontano (“avrebbe sbilanciato il racconto, sarebbe diventata troppo invadente togliendo spazio alla storia d’amore”) mentre lascia alla mamma pianista Marisa Borini il ruolo di se stessa (“ero sicura dall’inizio che avrebbe dovuto fare questo film”).

Amori, dolori, un preziosissimo Bruegel venduto all’asta, un grande albero da ripiantare nel parco a simboleggiare il bisogno di ritrovare le radici di famiglia, lasciando allo spettatore il gioco di riconoscere che cosa c’è di vero e di immaginato dell’ammirata (ma si direbbe molto più torturata di quanto si pensi) stirpe dei Bruni Tedeschi: ‘Un castello in Italia’ è anche questo, un ritratto vibrante di vita vera privilegiata ma anche del profondo strazio di una perdita assoluta, quella di un figlio. Un piccolo film certamente imperfetto – dramma e commedia non sempre si amalgamano a dovere – ma che si lascia vedere anche grazie a interpretazioni mai banali, sempre a un passo dal comunicare una sorta di disagio esistenziale nel mettere in scena emozioni e sentimenti.

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