Disabilità: intervista al creatore della discussa campagna “Poteva andarmi peggio”

In questa campagna la disabilità è vista come stato umano non desiderabile, quindi la condizione della persona disabile viene considerata intrinsecamente di serie B. Cosa rispondi?

potevandarmi peggio
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6 min. di lettura

Si è molto discusso negli scorsi giorni della campagna dei ragazzi disabili “Poteva andarmi peggio realizzata dall’agenzia Kirweb per Parent Project, associazione di pazienti e genitori con figli affetti da distrofia muscolare di Duchenne e Becker (sul sito di Telethon si spiega con semplicità in cosa consista, e appena qui sotto anche il nostro intervistato ci racconta qualcosa).

Secondo alcuni, la provocazione della campagna ha avuto il merito di convogliare l’attenzione sulle persone affette da questa malattia neuromuscolare, e di farlo in modo non pietistico.

Altri, tra cui attivisti noti del mondo della disabilità come Sofia Righetti e Marina Cuollo, hanno preso le distanze dalla campagna, ritenuta superficiale e nociva.

Non fa altro che perpetrare quegli stereotipi tossici che si riversano sulle persone disabili, (…) non fa ridere, non è umorismo, è umiliante e dispregiativa” ha chiosato Righetti, supportata da Cuollo. A tal proposito, poco più in basso trovate il post di Sofia Righetti.

Abbiamo raggiunto telefonicamente Riccardo Pirrone, creativo e ideatore della campagna per Parent Project, per provare a dar spazio alle sue ragioni. Abbiamo anche cercato di capire come sia nata la campagna e come si sia svolto il processo creativo e come siano stati coinvolti i ragazzi protagonisti.

 

 

Vorrei intanto parlare della distrofia muscolare di Duchenne e Becker. Ci spieghi brevemente cos’è?

Non sono un medico, posso dire che è una malattia rara che colpisce soltanto gli uomini, non c’è una cura, l’aspettativa di vita grazie alla ricerca si è alzata di molto negli ultimi vent’anni, oggi le persone possono vivere fino a 40-45 anni. Prima morivano molto più giovani.

Come sei stato contattato da Parent Project?

Ci hanno coinvolti in una gara, abbiamo ricevuto un brief. Con la mia agenzia abbiamo mandato tre proposte creative. Nel brief c’era scritto che non volevano comunicare – come accade di solito –  la disabilità in chiave ontologicamente negativa o come uno stato umano non desiderabile.

Era scritto così nel brief?

Sì, volevano qualcosa di disruptive. Noi di solito proponiamo tre proposte creative, con tre idee diverse. Anche questa volta abbiamo fatto così, e il cliente si è dimostrato interessato a questa idea.

Quindi già nella fase di gara voi avevate proposta questa campagna a Parent Project così come l’abbiamo vista nella sua versione finale?

Sì.

Perché a volte in una gara creativa si mandano degli spunti, e poi, se la gara viene vinta, si va avanti a sviluppare l’idea che piace. Questa volta l’idea che abbiamo visto tutti era già stata espressa in fase di gara?

Era più o meno così come l’abbiamo poi sviluppata, sai però che poi le cose si evolvono quando lavori con il cliente, e così è stato con Parent Project, e in verità non ricordo quale fosse l’idea che ha convinto loro a scegliere la nostra agenzia. C’è stata comunque molta collaborazione con Parent Project, ed è stata fondamentale perché loro conoscono bene i ragazzi, la malattia e questo mondo.

Le persone protagoniste della campagna come sono state coinvolte nel processo creativo?

Parent Project è composta dai genitori che si occupano di raccogliere fondi di supporto alla ricerca (supportate anche da Telethon ndr) alla distrofia muscolare di Duchenne e Becker. Le persone testimonial della campagna sono state coinvolte immediatamente, per capire cosa pensassero dell’idea, per realizzare il servizio fotografico. Durante lo shooting delle foto i ragazzi hanno visto le idee e abbiamo discusso con loro e posso raccontare questo aneddoto: i ragazzi si sono contesi alcune frase, tanto erano coinvolti. Insomma c’era piena consapevolezza di quanto stessero facendo e del fatto che volevano mettere la faccia su queste idee che loro sentivano proprie. Insomma loro si sono sentiti più fortunati di chi è intollerante, hanno sposato questa idea consapevolmente.

 

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Un post condiviso da Sofia Righetti (@sofia_righetti)

Qualcuno ha detto che in questa campagna la disabilità è vista come stato umano non desiderabile, quindi la condizione della persona disabile viene considerata intrinsecamente di serie B.

Certo, perché l’incipt letterale è “Poteva andarmi peggio”. Quindi io lo capisco. Questa frase “Poteva andarmi peggio”, poteva ricondurre all’idea “io non sono contento della mia condizione”. Ma se aggiungiamo la seconda frase, “potevo nascere omofobo” o “potevo nascere razzista” – tra l’altro non si nasce omofobi o razzisti ma semmai si diventa, quindi è un’iperbole dichiarata – è evidente che facciamo riferimento al fatto che la persona che dice così, poteva andarmi peggio, potevo nascere omofobo, ha talmente accettato la propria condizione, che riesce a scherzarci sopra. E se è proprio una persona in quella condizione a farlo, non vedo perché altre persone debbano sindacare sulla capacità di ironia di quella precisa persona. L’accettazione più grande di un qualsiasi problema o difetto è poterlo dire ai quattro venti, poterci scherzare sopra, e le attiviste hanno ragione quando dicono “basta guardare alla disabilità come a una debolezza“.

Capita spesso anche nella comunità LGBTQIA+. A volte coinvolgere singole persone è un modo per sollecitare il loro narcisismo. Penso che in questo caso tu abbia fatto leva sul narcisismo delle singole persone disabili e coinvolte e dei nella campagna, e dei loro genitori, di fatto inducendo le stesse a un comportamento non funzionale alla comunità delle persone disabili.

Credo che si debba ragionare differentemente, non esiste una comunità, ognuno è differente. Ognuno parla per sé, non esistono disabilità paragonabili ad altre disabilità, qui parliamo di una malattia invalidante che porta alla morte. Noi parliamo di questa disabilità, una malattia rara, su cui nessuno pone mai attenzione, una malattia che attacca soltanto una piccola percentuale di uomini, ci sono pochissimi fondi… Tu parli di narcisismo e mi accusi di aver usato il loro narcisismo: ebbene, di solito il disabile è sempre accessorio nelle pubblicità, spesso questo è un tema che viene condannato, perché il disabile non è mai protagonista, c’è sempre una persona normodotata che fa da connettore e divulgatore. Qui ci sono soltanto loro, combattono per raccogliere fondi per la loro condizione, hanno qualcosa da dire. Certo, non parlano per tutti, parlano per sé. Ma la cosa che ha dato più fastidio è che – secondo i detrattori – un disabile non può avere una sua opinione sui no vax, sugli omofobi o sul razzismo.

Le persone no-vax hanno diritto a non essere apostrofate come fossero omofobi o razzisti, perché sono due cose diverse. Sei pentito di aver coinvolto i no vax? Per altro anche Sofia Righetti, filosofa disabile, nel criticare la tua campagna, ha commesso lo stesso errore.

Ogni immagine fa parte di una campagna multisoggetto, sono opinioni differenti, le immagini vivono singolarmente, non li paragono. Credo sia pretestuoso paragonarli.

Però il gioco della provocazione è anche quello. Tu dici giustamente che ogni immagine è a sé stante, però l’intento della campagna era provocare anche grazie a questi accostamenti che – sebbene soggetti diversi – fanno parte di un’unica provocazione di comunicazione. Insomma, è borderline. Possiamo ammetterlo?

Certo! Io credo che i no vax siano stati la pietra dello scandalo, se non avessimo trattato quel tema, non saremmo qui a parlarne. Per la prima volta il tema della disabilità è entrata nell’agenda setting. Anche i disabili parlano di vaccini, la cosa è entrata nel discorso collettivo, per la prima volta. Quindi che male c’è a far entrare un disabile nel discorso su no-vax, sì-vax? Magari hanno sbagliato, non sto dicendo che i no-vax hanno torto, non è questo il punto. Il punto è che i nostri ragazzi disabili hanno potuto esprimere la loro opinione, magari non condivisibile, ma hanno potuto farlo, in prima persona. Il tema vaccino ha dato benzina alla campagna, e tanta visibilità.

campagna Poteva andarmi peggio
La distrofia di Duchenne e Becker è causata da alterazioni del gene codificante per la distrofina, localizzato sul cromosoma X.

La stessa cosa potremmo dire per i terrapiattisti, che hanno diritto a credere a ciò che vogliono, come ne hanno diritto cattolici o buddhisti.

Penso sia stato un errore, lo ammetto, i terrapiattisti non credono nella scienza e quindi erano un termine di paragone idealmente corretto, fa sorridere, era buffa, ma non è grave quanto essere razzisti. Anche perché essere razzisti è contro la legge. Non è un’opinione, è illegale.

Il reato di opinione è un campo minato.

Assurdo, a pensarci bene. Se sei terrapiattista, non sei intollerante come un omofobo, dannoso come un no vax, i terrapiattisti potevo risparmiarli.

Cosa rifaresti e cosa non rifaresti di questa campagna?

Questa campagna non è perfetta, ma sui social vince l’imperfezione,  infatti ci siamo resi conto soltanto dopo che avremmo dovuto aggiungere nome, cognome ed età dei protagonisti. I ragazzi parlano per sé, combattono per la propria situazione, non parlano per tutti, ma parlano per sé. Per questo avremmo dovuto personalizzare la campagna, mettendo i dati anagrafici. E poi no, non tirerei più dentro i terrapiattisti.

Non pensi che una persona disabile abbia diritto a essere omofoba come tutte le altre persone? C’è il rischio che questa campagna consideri la condizione di disabilità come condizione assoluta, come se quella persona non potesse essere altro che disabile. Invece magari è una persona tremenda, razzista, omofoba, anche una persona disabile può essere una cattiva persona.

Sì, sicuramente esistono, non lo nego. Non hanno diritto a essere razzisti, come nessuno ne ha diritto, ma insisto: la campagna parla al singolare, sono generalizzazioni pretestuose, sembra un po’ il gioco delle parti, attivisti e divulgatori, piuttosto che svolgere sempre il proprio ruolo, dovrebbero collaborare alle cause, fare qualcosa. Se ci ergiamo tutti a professori, la divulgazione non si propaga. Abbiamo bisogno di tutti per cercare nuove forme di comunicazione per combattere l’abilismo che è insito in tutti noi.

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